Piccolo scrigno.

 

E’ da stamani che spero il tempo si fermi, che non mi faccia arrivare all’ora del funerale.

Ma quel tempo arriva quando meno me lo aspetto mentre facciamo altre cose.
Cammino verso il cancello principale quando mi accorgo che sono già entrati e stanno camminando verso la cappella.

È qui che mi accade che il sangue si fa ghiaccio e quel tempo bastardo si raggruma e rallenta la scena. Sembra che perdiamo un battito per passo quando li vedo. E non mi posso fermare, non lo posso fare.

Entra il prete a capo basso, dietro il padre.
Ce l’ha in braccio.
È piccola e bianca avorio e ha otto viti dorate e sta tutta in una stretta.
Una stretta che sembra normale.
Non alza mai la testa mentre il sacerdote fa la benedizione.
La madre di fianco le tiene sopra una mano.

Li accolgo zitto con un gesto, un invito ad avanzare, io li precedo i miei colleghi stanno dietro.

Abbiamo scavato per quel che basta.
La salutano.
La madre fa una carezza sul legno laccato.
Poi il padre incontra il mio sguardo. Il suo lo sognerò per notti senza dimenticarlo più.
Non diciamo una parola, non serve perché adesso lo sappiamo che succede.

Allunga le braccia e me la passa.
Mi si accartoccia la gola.
Una parte di me, la parte che può farlo è come se sparisse.
Adesso la tengo, pesa che sembra un velo.
Scendo come se la gravità non ci fosse, mi sento quasi appeso a un filo invisibile, lo so che deve andare tutto bene, a ogni costo.
E il mio salto riesce a non essere sgangherato ma uno scorrere delicato in un letto di terra antica.
Mi accuccio, la poggio, la metto dritta.
Guardo il padre.
Ha il capo reclinato e penso che adesso lasci scorrere dei ricordi solo immaginati.
Si tengono stretti mentre la lascio.
È un abbandono che pesa perché adesso tutto finisce.

Mentre mi allontano sento appeso un fardello che spero si strappi mentre lo vado a raccontare.

Rinascita.

 

Rinascita

Guardo questo cimitero grande dalla stanza dove riposo.

Mi ha raccontato storie che mi hanno fatto crescere, ho ascoltato racconti disperati di persone sole, ho raccolto il bisogno di comunicare.

Questo si era interrotto per un po’. 

E anche se abbiamo riaperto, anche se la consuetudine è tornata a popolare queste mura, io ho smesso di farmi domande, di osservare, di raccontare, evito le persone invece di avvicinarmi e portare un saluto.

C’è stato un momento in cui mi sono chiesto perché, senza trovare risposta.

Forse adesso questa risposta ce l’ho.

 

Quello che dà senso al mio mestiere non sono i morti.

Sono i vivi.

E di vivi non ce n’erano più.

Non c’era il rumore del traffico, non c’erano gli odori.

Era tutto un cimitero, dentro e fuori dal cancello.

Il bisogno che ho di condividere questo diario era tornato a essere un disagio interiore incapace di uscire, di entrare dentro a quello che succedeva intorno, di cercare negli occhi della gente, anche se la gente era tornata, e di raccontare quello che vedevo, quello che sentivo.

Mi sono messo tante volte davanti alla tastiera, ma uscivano cose che non mi appartenevano.

E se anche il seguito e i like fanno piacere, questa pagina non è un tritacarne.

È un diario condiviso, un pezzo di me a cui voglio bene.

 

Poi sono cominciati ad arrivare i messaggi privati.

Mi chiedevano come stavo, se andava tutto bene, perché non raccontavo più.

Erano tanti. 

A volte scrivevo una risposta per poi cancellarla, a volte non entravo nella pagina per giorni e giorni e le risposte che davo erano evasive.

Perché una sola era quella reale ma non avevo il coraggio di ammetterla. 

Mi ero perso.

 

Ho visto la natura provare a riprendersi questo spazio senza riuscirci.

Ho custodito queste mura mentre erano chiuse, mentre le gallerie rimbombavano delle nostre voci, 

Ma una cosa forse l’ho dimenticata.

Di custodire me stesso.

 

Quello che ci resta.

Nel cimitero sono morti anche i fiori adesso.
Non ci sono odori, o rumori.
Gli uccelli sono aumentati invece, hanno fatto i nidi, scendono bassi a cercare da mangiare. Gli passo accanto e nemmeno scappano più. Sembra che mi guardino con pietà.
Dal loggiato interno mi affaccio alla finestrella, per vedere se arriva il carro funebre.
Gli si apre, a lui, come si apre all’auto dei due familiari che possono entrare.
Ma c’è una donna invece.
Si tiene all’inferriata del cancellone e guarda dentro. Ci sta alcuni minuti, senza muoversi.
C’è ancora mentre faccio il giro.
Sulle prime non mi vede, poi alza la testa e non cambia espressione quando si volta a guardarmi.
Ci fissiamo per un istante, poi scuote la testa e se ne va. Non abbiamo il coraggio di dirci niente.
Da queste mascherine la voce esce diversa, esce fiacca.
Quando salutiamo i familiari non diciamo nemmeno più condoglianze, allarghiamo soltanto le braccia e anche loro scuotono la testa.
La rassegnazione.
Arriva il carro, passa l’auto, chiudiamo il cancello.
Sistemiamo la cassa. A volte qualcuno porta un fiore solo, colto in giardino.
Ci si guarda da dietro queste mascherine. Ci si guarda.
Non ci restano che gli occhi.
E le lacrime.
Non abbiamo che quello.

Come il cardo.

Illustrazione di Rita Faccin – Pagina FB: https://www.facebook.com/ArtDropsRita/

 

Te ne sei andato che tirava un vento caldo.
I venti io non li so chiamare, li ascolto soltanto; e da questo, ogni volta che arriva, mi lascio carezzare il volto, in un ricordo di te.
E come te non è impetuoso ma delicato; smuove le foglie piano, le fa tintinnare come quei sonagli che si mettevano in veranda.
Chiudo gli occhi e le ascolto anche oggi le foglie. Anche oggi che il vento è tornato, è caldo e calmo e continuo, mi passa sul volto senza folate, come passasse un panno di seta.
Anche oggi, che è passato un anno e che ti porto fiori nuovi.
Ma di tutti i fiori che ho portato, solo il cardo è nato, spontaneo, sul cumulo che ti copre, di questa coperta di terriccio che fa questi scherzi.
Oppure no.
Forse non è un caso.
La tua dolcezza era mascherata, spesso, di qualcosa di ruvido, come uno scudo, come una difesa; ma non riuscivi a nasconderla, come il cuore di questo bulbo spinoso, che si lascia coprire da fiori viola, quando è tempo.

Bianco e nero.

È minuta e cammina leggera sul pelo dell’acqua, così esile che pare più piccola dell’ombrello che la ripara dalla pioggia. Lo tiene con entrambe le mani, come se ci fosse appesa, come una speranza.
Si ferma davanti a una tomba.
Mette un bacio sulle punta delle dita e lo posa sulla foto.
Porta i capelli lunghi chiusi in una piccola coda da scolara, ha le guance arrossate e indossa un impermeabile beige.
Ma sembra una figura in bianco e nero.
Forse prova un dolore così forte da far perdere il colore anche agli occhi di chi guarda.
Piove leggero un concerto di gocce che fanno un unico suono, come di cascata.
Resta lì per qualche minuto.
Poi si alza un istante sulle punte, si volta e va.
I suoi tacchetti si confondono tra le gocce senza lasciare rumori.
Mentre passo, lancio uno sguardo a quel tumulo.
C’è la foto in bianco e nero di un giovane uomo. Per un attimo riesco a immaginarlo, da vivo.
Forse la memoria riesce a colorare ciò che la morte vorrebbe spegnere.

Favole e riflessi.

Oggi fa caldo, sto qui a spazzare le foglie dai vialetti del cimitero. Stiro la schiena e mi guardo intorno; i visitatori abituali se ne sono già andati. Il sole si è abbassato e accenta la collina davanti, tra poco stacco.

 

Mentre cammino nella parte nuova, vedo qualcuno seduto tra le tombe, quasi mi spavento.

Mi avvicino, è un ragazzo.

È appoggiato al casco della moto, seduto su un piano di marmo rosa del Portogallo. Tiene in mano la foto di una donna riccia; anche la cornice è di marmo, dev’essere pesante. Con le dita segue le venature scure della roccia levigata.

Indossa delle cuffie da cui sbuffa una melodia incerta, quando mi vede fa un balzo all’indietro.

– Ohh… M’ha fatto paura!

La passata delle cuffie gli cade sul collo.

– Allora siamo pari – sorrido – Tutto a posto?

– Sì – lo dice sospirando – Perché?

– Ti ho visto qui seduto, a quest’ora; di solito non c’è nessuno.

– Vengo la domenica con papà – muove la testa a indicarmi la foto – È mamma.

Restiamo alcuni secondi in silenzio, poi fa spallucce e conclude – Era.

– Le somigli.

Mi guarda e stira un sorriso, poi si fa serio in un modo adulto.

– Mi ha detto papà che domani la togliete.

Mi sposto per sbirciare l’anno di morte.

– Mmm… Mi sa di sì.

Abbassa la testa.

– Non vuole che io assista.

Lo guardo zitto.

– Cavolo! – il ragazzo mette a posto la foto e comincia a sbracciarsi – Secondo lei: può farmi impressione vedere i resti di mia madre? – si batte le mani sul petto – A me, che leggo Dylan Dog e divoro film e romanzi dell’orrore!

Adesso dalle cuffie esce un suono vibrato di violino.

– Anch’io leggo Dylan Dog – Dico.

Mi fissa.

– Ma se glielo chiede lei a mio padre?

– Cosa?

– Se posso assistere. Lo faccio venire qui con una scusa e…

– Ascolta – accompagno la mia tesi gesticolando – Ho due figlie: se un estraneo mi venisse a dire cosa devo fare con loro, dopo essere stato preso in giro, cosa credi che risponderei?

Ci pensa un po’.

– È vero. Però è strano, con lui parlo di tutto, abbiamo un bel rapporto: non capisco perché su questa cosa non… – con lo sguardo afflitto fissa per terra – Io la voglio rivedere.

– Ti ha detto perché non vuole?

– No.

– Gliel’hai chiesto?

– No.

– Lui ci sarà domani?

Fa sì col capo.

– Scommetto che provate la stessa emozione, e rabbia; forse vuole solo proteggerti.

– Non ci avevo pensato… Io ci devo essere porco cane! – Con un pugno colpisce il casco che rotola in mezzo al vialetto – Quando ho un compito in classe, o un problema, vengo qui la mattina presto e le chiedo di… – gli occhi adesso scintillano di gocce che si gonfiano senza cadere –  Lei crede che i morti ci proteggano?

Cerco la risposta fissando nel vuoto del casco capovolto, vorrei dirgli che quella protezione ce la diamo da soli, quando crediamo in qualcosa con forza, ma non sono un filosofo, sono solo un becchino.

– Mi piacerebbe – dico.

Resta un po’ in silenzio a giocare col filo delle cuffie, poi mi si rivolge sorridendo.

– Le faccio ascoltare una cosa – smanetta col cellulare – La registrazione non è un granché, viene da una vecchia videocamere a cassette.

Parte un lieve fruscio, in sottofondo si sente appena un borbottare di bambino, poi una voce calda e gentile di donna. 

Racconta una favola, la racconta impostando la voce con versi buffi. Racconta di una principessa scalza che correva per il mondo, che si bucava i piedi se camminava piano e perciò correva, correva senza cura; racconta che non si poteva innamorare di nessuno dei principi con le scarpe. Racconta che un giorno incontrò un principe scalzo, come lei, che come lei correva, e cominciarono a farlo insieme, pazzi per il mondo…

Alla fine della favola la mano che tiene il cellulare rovina sulle gambe, come se non riuscisse a sostenere un peso troppo grande e improvviso.

Adesso le gocce nei suoi occhi pesano più del pudore. Si volta fissando altrove, si asciuga, mi guarda di nuovo.

– Va bene, ci parlerò, da uomo a uomo!

Gli faccio un teatrale sì con la testa e simulo un applauso.

Si alza in piedi.

– Grazie!

Raccoglie il casco con un balzo, se lo mette in testa mentre corre. Poi si ferma all’improvviso in mezzo al vialetto, strusciando i piedi: mi fa due buche così nei sassetti.

Si volta tenendosi per le cinghie dell’elmetto colorato.

– Me la toglie lei mamma, vero?

Un brivido forte mi sale dalla schiena.

– … Sì – gli sorrido.

E corre via.

Domani è il mio giorno libero.

– Era – penso mentre rastrello il vialetto.

 

Domani è arrivato così presto…

Il tempo è come la bolla dentro una livella. Ci sono momenti in cui la mia vita sembra muoversi per conto suo rispetto al resto del mondo.

Scendo dal letto tastando coi piedi per terra finché non trovo le ciabatte. Mia moglie dorme, lascio spenta la luce per non svegliarla; guardo nel buio, cerco di indovinare i suoi confini, le tocco piano una mano perché ho paura che non sia vera, che mi possa mancare la materia del suo corpo vivo.

In bagno mi muovo al rallentatore. 

Eccomi.

Lo specchio non mi riflette completamente. L’immagine, certo, è quella, ma ciò che parte da dentro s’infrange sulla corteccia; il vetro non la racconta.

Questa cosa fredda e silenziosa che mi fissa scompare dietro al vapore dell’acqua calda; m’insapono e comincio a radermi; non importa che guardi, sono trent’anni che lo faccio. 

Penso che sto usando un rasoio a quattro lame perché con una sola di solito mi taglio e penso che sia strano, come sono strane molte delle cose a cui sono abituato.

Penso a quello che dovrò fare oggi, penso che dopo tanti anni da necroforo ho visto più gente morta che viva, che dovrei essere abituato a tutto, e invece niente. 

Penso che l’acqua fredda mi svegli più del caffè.

Penso ad altre idiozie, così smetto di chiedermi se quel ragazzo oggi ci sarà.

 

Il collega che guida il camion aspetta che noi altri due si scarichi la ruspa. Lo salutiamo, gli dico che lo chiamerò quando avremo finito, per farci venire a prendere.

È una splendida giornata, tira un filo di vento piacevole che spazza la collina dove ci troviamo. La città è ancora zitta e si vede appena, mescolata tra le piante che frusciano come bisbigli. 

Le esumazioni della mattina passano veloci, i volti dei familiari si succedono uno dopo l’altro, ognuno una storia. Quando suona mezzogiorno il mio collega sta spianando la terra smossa; io finisco di murare gli ossarietti di zinco al loro posto.

Pausa pranzo la trascorriamo seduti fuori dal cimitero, sul culmine della collina, appoggiati al tronco di un grosso leccio. Muovo la testa giocando con la corteccia rugosa. 

Il vento è cambiato, arrivano odori nuovi, odore di caffè; dice che quando si sente il caffè poi pioverà.

È l’ora di ricominciare.

Ci alziamo già stanchi, le ossa delle ginocchia schioccano. Svolgo i miei lavori senza smettere di pensare che l’ultimo di essi avrei voluto che fosse il primo, perché mi sarei ormai già tolto il pensiero di quanto sarà pesante violare quella tomba rosa.

Oltre il muro sento avvicinarsi un’auto. 

Sono due gli sportelli che si chiudono; rimango incerto finché non lo vedo. Il ragazzo di ieri entra sorridente, suo padre è più alto di lui di parecchio, gli tiene un braccio sulle spalle, sorride gentile sotto due baffi curati. 

Il ragazzo mi fissa, muove le sopracciglia come una vittoria.

Stringo la mano all’uomo, mi rivolgo al ragazzo, la stringo anche a lui: 

– Giovanotto… 

 

Il sole proietta la mia ombra nitida sul marmo che sto per rompere. Sollevo la mazza di ferro. Mi chiedo se anche questa sagoma nera sia una semplice proiezione o anche quella un riflesso. Forse appartiene alla creatura che mi fissa tutte le mattine allo specchio, forse è la parte di lei che temo.

Allora rompere questa tomba con questa cosa sopra mi fa meno rabbia.

Dietro di me ci sono due altre ombre: una più grande e una più piccola.

Le vedo muoversi sulla mia, confondersi, come se il sole si divertisse, le allungasse apposta per ricordarmi che non sono solo, che il dolore nelle ombre non si vede.

Allora parte il primo colpo, il secondo e il terzo e il marmo si sgretola, anche lui che sembrava così forte.

Il collega accende l’escavatore che si impenna come un cavallo, mentre ferisce la terra, ma poi riesce a domarlo e diventa docile quando carezza piano coi denti il coperchio del vecchio feretro. 

È ancora integro. 

Respiro sollevato, perché vuol dire che la cassa non sarà piena di terra, che forse l’umidità avrà consumato questa povera, giovane donna, che a questo ragazzo sarà risparmiato un brutto spettacolo, di cui mi sarei sentito in colpa.

Scendo.

Con la pala pulisco la superficie ancora levigata del legno. 

Faccio leva e il tappo si apre con un tonfo sordo. Lo alzo piano, è pesante.

Tengo il fiato sospeso sperando che la salma sia consumata. 

Il mio sguardo entra dentro, infrange la sacralità del sepolcro, incontra due orbite vuote. Le riempio con gli occhi verdi della donna riccia nella foto.

Più in basso si distende un vestito viola fatto di gale e merletti. Un velo di raso copre la testa.

Deglutisco. 

Guardo il ragazzo, mi sta fissando. 

M’invento un sorriso mentre gli alzo il pollice, lui guarda suo padre, suo padre fissa il ricordo di sua moglie.

– È il suo vestito da sposa – gli dice – Era bellissima.

Adesso il giovane annega nell’abbraccio di lui.

Indosso guanti così spessi che non sentirei una martellata, eppure quando setaccio tra questi vestiti mi sembra di stringere spine.

Compongo le ossa nella cassetta di zinco come fosse un mosaico. Il ragazzo adesso si fa forte, è accigliato, ha occhi rossi e gonfi. Quando chiudo la scatola sento un forte sollievo; mentre muro l’ossario loro parlano con voce distesa.

Ci salutiamo, la mano del ragazzo stringe forte, ha un sorriso complice.

Li vedo andarsene, di spalle, sul vialetto di sassetti grigi. 

Ripenso a quella favola, a quella voce dietro il fruscio, a come va a finire quel racconto dell’amore tra due folli coi piedi scalzi, che smisero di correre solo quando incontrarono la sabbia. Allora cominciarono a camminare piano, perché la sabbia era morbida e fresca. E assaporarono il mondo. Così le orme aumentarono; in mezzo comparvero quelle di due piedi piccolini.

Fisso quei passi muoversi piano sui sassi. Posso solo immaginare quanto pesi l’assenza di quelle orme scalze accanto alle loro.

Vibra il cellulare. 

È il nostro collega, dice che il camion non parte, che è lontano, che lo andranno a prendere, e solo allora lui verrà da noi. Ma ci vorrà tempo.

 

Si fa buio. 

Aspettiamo sulla cima della collina sopra al cimitero. 

Il mio collega è disteso sull’erba e fuma un sigaro alla vaniglia, io sono seduto. 

Le fronde nascondono le luci della città e il cielo è un teatro punteggiato. 

Una volta ho sentito dire che tutte quelle stelle appuntate sono i desideri realizzati; allora penso che da questa sera ce ne sarà una in più. 

Il mio sguardo finisce dentro al cimitero sotto di noi, incontrando un altro firmamento nella distesa di lampadine.

Forse sono i desideri mai avverati, che restano attaccati al proprio sognatore, per sempre. 

Alzo la testa, la riabbasso, l’alzo ancora. 

Annego in un’angoscia sottile quando penso che il sopra e il sotto sembrano specchiarsi.

Ma tra i due, mi chiedo quale sia davvero l’immagine e quale il riflesso.

 

Un suono e un bacio.

Sono due minuti che ho aperto il cancello del cimitero vecchio.

Do l’ultimo morso a un dolcetto che mia moglie aveva nascosto insieme ai panni. Mi passo una mano sulla bocca, se ci fosse qualche briciolo e tengo gli occhi chiusi un istante di più, come per assaporare questo giorno, che penso sarà buono; domani sono di festa.

Poi avverto un suono. È continuo, e piccolo.

L’ultimo passo che faccio prima di essere fermo, mi fa sbucare nella parte nuova, che ha il cancello che apre da solo. 

C’è un signore, anziano, appoggiato al marmo di un loculo in seconda fila.

Non mi ha visto e non ha sentito arrivare questi scarponi silenziosi.

Allora torno celato, dietro al muro.

Il suono continua. È lui.

Intona una melodia che non riconosco.

Non me la sento di interromperlo passando di là; allora aspetto di non essere di troppo e mi trovo a rubare questo momento.

Spunto fuori appena, che lo possa vedere, appena, che lui non mi veda.

È posato alla lastra lucida come fosse perso in un abbraccio; le labbra appoggiate come in un bacio.

E suona.

Perché non canta, né fischia; emette questo suono melodioso, quasi nasale.

Quando il suono finisce lui si sposta, carezza la foto e se ne va.

Allora esco, vado verso la stanza degli attrezzi e non posso fare a meno, passando là davanti, di sbirciare quel marmo.

Oggi sarebbe stato il compleanno della donna che lì dentro riposa.

 

C’erano una volta 4 becchini…

C’erano una volta quattro becchini.

Una mattina si ritrovarono davanti al cancello del cimitero ebraico, per preparare un funerale.

Era molto presto, il sole non si vedeva ancora e la nebbia notturna avvolgeva umida ogni cosa.

Li accolse il canto dei merli, sui grandi alberi del parco interno.

Primo arrivò il Nonno, che era il più anziano; secondo giunse il Braccio, che aveva tanta forza da sollevare una tomba da solo; terzo fu Goccia, che aveva la lacrima facile e non finiva un funerale che non ne avesse versata qualcuna.

Infine arrivò lo Zitto.

Il cancello grosso e pesante sembrò aprirsi da solo, dopo uno sferragliare fastidioso.

Entrare dentro quelle mura piegava le spalle. La conoscenza a volte è pesante da sostenere.

Il guardiano, un omino piccolo e gentile, fece capolino e salutò.

Dopo aver loro offerto un caffè, nella sua casetta  dentro al cimitero, porse ai becchini una cesta di vimini piccola che conteneva quattro Kippot blu, fatte a uncinetto.

Non si poteva stare là dentro senza un copricapo.

Così uno a uno le presero e le indossarono.

Prima di usare le pale, i becchini le guardarono: quel giorno avrebbero dovuto scavare a mano la fossa, perché nessuna ruspa sarebbe passata dai viali stretti.

Il Nonno prese la pala più vecchia e consumata; il Braccio prese quella col manico scheggiato, che tanto aveva calli così duri da piallare persino le schegge; Goccia prese quella col manico nuovo; infine lo Zitto prese quella col manico corto, che tanto, mica era alto.

In quel luogo il posto dove riposare si sceglieva in vita.

Uno arrivava nel campo e indicava.

– Lì – diceva, e lì andava, anche se c’era solo terra, o anche se era in mezzo ad altre tombe già costruite. E una volta arrivata la sua ora, lì avrebbe riposato per sempre.

Quando giunsero dove dovevano scavare, trovarono un gazebo.

Tutti e quattro i becchini si voltarono a fissare il guardiano, che da sotto un ombrello grande e nero, disse che la sera prima, un familiare, lo aveva fatto portare proprio per loro, per non farli inzuppare se avesse piovuto.

E infatti piovve.

A turno cominciarono a scavare di buona lena e in meno di due ore la buca era bella che fatta; così i becchini si misero ad aspettare il funerale.

Quando il carro giunse nel cimitero, aiutarono a mettere la cassa sul carretto di ferro. A coprire il feretro c’era un tessuto bianco, con una stella blu disegnata al centro.

– Che bella coperta – Esclamò il Braccio.

Il Nonno gli tirò una zuppa sul collo e disse: – Non è mica una coperta quella, asino! È una bandiera!

Quando il corteo arrivò in prossimità della fossa, i quattro becchini posarono piano la bara per terra, passarono le corde dalle maniglie e la calarono dentro, ancora più piano e pari pari, come voleva il Nonno.

Poi, mentre tutti si paravano con gli ombrelli neri, i becchini presero ognuno la propria pala e cominciarono a coprire.

A un certo punto, a metà del lavoro, appena la terra aveva coperto l’ultimo spigolo della cassa, il rabbino fece un gesto con la mano e il Nonno, rivolto agli altri tre, disse – Fermi!

Allora I becchini si spostarono da una parte, sempre sotto al gazebo e i presenti cominciarono a pregare nella loro lingua. Poi il rabbino disse a tutti di voltarsi, e tutti si voltarono nella direzione dove era la Terra Promessa, e continuarono a pregare.

Dopo aver pregato si voltarono tutti verso un’altra direzione e rimasero in silenzio.

E guardarono a lungo.

Guardavano così forte che gli sguardi pesavano. e i becchini si accorsero che quegli sguardi non erano normali ma vedevano oltre quello che c’era, vedevano quello che c’era stato, come se fosse adesso.

E siccome i quattro becchini, scemi scemi, sapevano bene quali erano quei ricordi, e sapevano cosa era successo dove tutti guardavano, si emozionarono.

Non c’era solo Goccia che versava la solita lacrima, anche il Nonno cominciò a lasciarle andare, lo Zitto pure; e anche Braccio, che di certo non aveva mai pianto in vita sua, quel giorno lo fece.

A un tratto ci fu un silenzio così pieno che superò tutto il silenzio che lo Zitto aveva fatto in vita sua.

Goccia, che, figuriamoci, non c’entrava nulla, si sentì in colpa per quei ricordi che a volte vengono dimenticati e allora si spostò di lato, fuori dal gazebo, solo per prendere l’acqua in faccia mentre cadeva.

Gli sembrò, in quel momento, l’unico gesto che potesse fare per riempire il vuoto che sentiva dentro.

Galleggiare.

I familiari restano ancora attorno al feretro, prima che noi ci muoviamo.

Il marito e la figlia sono vicini, che lo guardano.

Lui sorride.

– Papà… tu ridi – Fa lei.

La tira a sé, le dà sui capelli un bacio posato, poi la guarda forte – Mi tornano a mente solo ricordi belli – Le dice.

E io che sto davanti, non riesco a smettere di stupirmi, da dietro uno sguardo velato, di quanto amore la morte lasci galleggiare.

Viaggio per un addio.

Nell’appartamento c’è odore di caffè silenziosi e mani che stringono; per noi è un preludio.
Entriamo salutando discreti i familiari e ci mettiamo in disparte.
Senza volerlo ascoltiamo parole che compongono un mosaico, pezzo dopo pezzo, fino a metterci in testa un disegno approssimativo di questa vita che è passata.
La figlia del defunto non è ancora arrivata.
Ma sta per farlo, manca davvero poco; era in vacanza all’estero.
– Almeno per il funerale – Ha detto – Mi dovete aspettare.
Lo ripete la madre di continuo, a tutti.
E allora il trasporto ha atteso, è stato spostato per il ritardo di un volo.
Il feretro però, quello lo abbiamo dovuto chiudere due giorni fa, non era più possibile rimandare.
Lo schiamazzo dei presenti annuncia l’arrivo della giovane donna, che entra nella casa e si fa largo con educazione tra le persone che la vogliono salutare, abbraccia la madre, le fa una carezza, poi si ferma sulla porta della camera e fissa la cassa sul letto. In questo frammento di tempo sul suo viso scorrono tutte le espressioni che un volto può offrire, passano intorno ai suoi occhi come passano le ombre che si portano dietro le nuvole.
Si toglie le scarpe, l’una con la punta dell’altra.
Si asciuga una lacrima.
Si sposta leggera fino alla prossimità del letto, si concede un attimo ancora, poi tocca il legno liscio con una mano, lo accarezza piano.
Si siede sul letto, avvolge il feretro con un abbraccio che il legno sembra dissolversi.
– Non ce l’ho fatta nemmeno a dirti addio – Gli dice.
E gli sussurra parole, come solo le figlie ai padri i segreti.
Mentre usciamo dalla stanza per lasciarli soli, lancio un ultimo sguardo e penso che sto vedendo l’addio più dolce che si possa dare.