Tafofobia

buried_aliveUna delle fobie più diffuse tra gli esseri umani è la tafofobia.

Si tratta della paura di essere sepolti vivi e forse in passato non era del tutto fuori luogo.

Ci saranno state certamente persone che hanno aperto gli occhi nel buio totale e, nel tentativo di capire dove fossero, hanno allungato le mani trovandosi rinchiusi in uno spazio inesistente e con un filo di ossigeno, necessario appena per capire di essere senza scampo, avranno finito il loro tempo inarcandosi, sbattendosi come un uccello nella gabbia, sbuffando folli lamenti, dilaniandosi…

Però la medicina negli ultimi decenni ha fatto passi da gigante e proprio per scongiurare questo genere di risvegli “post mortem“, i medici usano molte precauzioni.

Negli anni mi è capitato di aprire molte bare, nel corso di esumazioni o estumulazioni. Non ho mai trovato un corpo spostato dalla posizione che solitamente gli viene data dopo la vestizione.

Sempre steso sulla schiena, le mani giunte oppure stese lungo ai fianchi.

Ho chiesto a operai di più lungo corso e anche loro escludono di essersi imbattuti nella loro carriera, in corpi che dimostrino una sofferenza pari a quella che potrebbe provare una persona a risvegliarsi chiuso in una bara.

In un paio di occasioni però ho sentito parlare di mitomani che, in occasioni di opere di ristrutturazione nei cimiteri, hanno assistito a delle esumazione e hanno raccontato in giro di aver visto coperchi rigati da unghie o corpi piegati nella frenesia di trovare un’uscita.

Mitomani certamente.

Io, in ogni caso, mi farò cremare…

Vermi

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Chi non ha sentito dire almeno una volta nella vita che “siamo cibo per vermi”?

E’ un’affermazione cinica, spietata, priva di speranza ma è piuttosto diffusa e abusata in molti film o libri, quando si tratta di fare riferimento all’inevitabile destino di ogni essere vivente.

E poi ci si può imbattere nel suo senso più letterale.

Si deve esumare un piccolo settore circondato da un muretto di mattoni. Lì dentro lo scavatore non riesce a muoversi come al solito: anziché mettersi di fronte alla tomba, resta di lato.

La ruspa comincia a togliere la terra gradualmente, dal centro del sepolcro verso il “piede” della cassa.

Compare il coperchio, ancora intatto. Per facilitarmi il compito l’operaio cerca di liberarlo anche sulla parte alta, ma alla seconda bennata il tappo di legno frana, di colpo; la tavola centrale (delle tre che lo compongono) cede alla spinta infilandosi dentro al feretro.

Alzo un braccio, segno convenzionale per bloccarlo e subentrargli nello scavo con la pala.

Scendo nella piccola fossa tenendo i piedi abbastanza larghi da non forzare sulle assi smosse del coperchio. Le tolgo, poi scavo quanta più terra possibile dall’interno della cassa usando una mestola da muratore, piccola abbastanza per evitare di smuovere le ossa.

La terra sovrastante la testa è rimasta al suo posto, creando una piccola volta, una nicchia. Non posso toglierla; al primo tocco franerebbe tutto all’interno, rendendo ancora più difficoltoso il recupero dei resti.

Mi piego sulle ginocchia per cominciare l’operazione; intorno la pioggia ha reso il terreno morbido e scivoloso. Per recuperare la parte alta dello scheletro sono costretto a mettermi in ginocchio sulle assi laterali del feretro e piegarmi in avanti.

La mia tuta bianca alla “R.I.S.” è idrorepellente e non corro il rischio di bagnarmi i vestiti.

Ripongo il teschio nella cassetta di zinco, poi continuo il lavoro cercando un equilibrio più stabile. Vedo che i vestiti sono integri e cerco di sollevare la maglietta mantenendo dentro tutto il contenuto, per riversarlo nella scatola.

È lì che si trova la quantità più numerosa di ossa e se riesco nel mio intento faccio un piacere ai familiari; sono concentrati su quello che faccio e posso evitargli di vedere uscire da quelle vesti consunte, il posto dentro cui, oltre un decennio fa, batteva il cuore del padre.

Ci riesco. Mi riporto in posizione, il mio sguardo cade sul fondo del feretro: balzo in piedi allibito; il mio collega interviene pensando a un problema.

– Tutto bene – lo tranquillizzo – Ma qui sotto c’è qualche ospite imprevisto.

Migliaia di piccoli vermi rossi e arancioni si contorcono nel fango sottostante. Non avevo mai visto niente di simile. Era un brulicare incredibile, una stonatura: tutta quella vita in un letto di morte

Anche i familiari li vedono, provano disgusto e risentimento per la presenza di quelle creature insieme al corpo del padre.

In questi casi cerco sempre di rincuorare le persone.

– Potrebbe essere stata la sua fortuna – spiego loro – La presenza di questi animali rende la terra ricca di sali minerali, in questo modo la mineralizzazione – un modo carino per definire la decomposizione – avviene più velocemente.

Sì, effettivamente adesso sono più sollevati.

Finisco il lavoro iniziato mentre penso che forse sono apparso ridicolo agli occhi dei presenti; la maggior parte delle persone troverebbe normale imbattersi in un verme, mentre a farli sobbalzare sarebbero di certo i resti di un corpo umano.

 

Fuochi fatui

175_flame-940x626Nelle notti senza luna, asciutte e serene, gli incauti passanti che costeggiano il perimetro di un cimitero, potrebbero scorgere da un pertugio o un cancello, una fievole luce tremolante, appena percettibile, saettare tra le tombe. Essa accompagnerà effimera i sogni o gli incubi della sua notte agitata.

L’immagine dei fuochi fatui mi ha sempre affascinato

Quando da bambino il babbo o il nonno mi portavano a far visita ai nostri defunti, mi parlavano di queste fiammelle che si sprigionavano di notte nei cimiteri e gironzolavano tra le tombe come se fossero vive.
Anzi, la leggenda voleva che quei tenui fuocherelli fossero le anime dei morti – mi dicevano.

Per andare a casa di alcuni parenti si passava per una strada provinciale che scorreva accanto a un camposanto. Quando a tarda sera tornavamo a casa, sbirciavo dal finestrino della nostra Renault 4 azzurra fin dentro quel luogo puntellato di lumini immobili, sperando di riuscire a vedere una di quelle fiammelle.

Non è mai successo.

Pur essendo rimasto tante volte, per lavoro, nei cimiteri fino a tardi, non sono mai riuscito a osservare un fuoco fatuo, che è rimasto una figura leggendaria della mia infanzia.

Eppure…

Quando ho cominciato a fare questo mestiere ho conosciuto un vecchio custode prossimo alla pensione. Una volta entrammo nel discorso dei fuochi fatui e lui mi disse che sono apparizioni talmente veloci che difficilmente si possono vedere.

– Però voglio mostrarti una cosa – mi disse mentre mi invitava a seguirlo.

Raggiungemmo uno dei campi più vecchi del cimitero, dove molte tombe avevano ceduto nel tempo. Per terra, qua è là, c’erano piccoli fori e crette nel terreno.

Da una delle innumerevoli tasche del suo giubbotto, estrasse l’accendino e si accucciò in prossimità di una fessura, fece leva sulla pietra focaia e la fiamma appena accesa si propagò flebile, saettando per qualche decina di centimetri.

Rimasi a fissare il fenomeno a bocca aperta, con l’ingenuità di un bambino, finché non scomparve. Avevo appena visto il mio primo fuoco fatuo.

Il fenomeno è causato dall’uscita in superficie di piccoli afflati di metano o altri gas infiammabili, probabilmente derivati dalla decomposizione dei cadaveri, accesi – ma è una mia teoria – dalla dispersione elettrica dei numerosi allacci per l’illuminazione delle tombe che si snodano nel terreno.

Non ho mai ripetuto l’esperimento del vecchio custode, ma il pensiero dei fuochi fatui mi affascina ancora come quando ero piccolo.