Con gesto sinuoso e continuo faccio un doppio cappio e stringo il tessuto fino al pomo d’adamo.
La cravatta trattiene il calore del corpo e le emozioni. Carezzo il nodo per assicurarmi che sia dritto con le punte della camicia e non si veda l’ultimo bottone chiuso.
Infilo prima braccio sinistro poi il destro, aggiusto la giacca sulle spalle, i bottoni escono dalle asole, le tasche sono chiuse, tutte e due. Due colpetti di routine sul petto, più a scuotere la tensione che la polvere.
Le pense dei pantaloni cadono sul collo dei piedi, le scarpe sono lucide. Bagno un fazzoletto di carta e tolgo una macchia di polvere sulla punta di una.
Cerchiamo la perfezione nei nostri abiti e nella nostra postura, ci muoviamo lentamente limitandoci allo spazio necessario al nostro lavoro.
Il resto del tempo lo passiamo sugli attenti, mani giunte, come soldati o camerieri, senza guardarci intorno.
Quando ci muoviamo è in sincrono e in silenzio. Sappiamo quello che c’è da fare e per dirlo usiamo gli occhi.
Una famiglia in lutto non ha bisogno della nostra eleganza, ha bisogno che siamo invisibili.
Il caos genera inquietudine, l’ordine tranquillità.