Entro nella stanza da letto con passi costretti che uno pesta l’altro e lo cerco piano con gli occhi.
Il dolore alla mano è perché stringo la maniglia d’acciaio della valigetta per la vestizione. Me ne accorgo quando lascio la presa e il pollice avverte il solco sulle dita.
Sul letto c’è un uomo in completo intimo.
Morto.
Quando ero piccolo mio fratello ebbe una grave crisi asmatica.
Per mesi prima di mettermi a dormire passavo un tempo indefinito a osservare che respirasse, che il suo addome si sollevasse ritmico e senza spasmi. Ricordo che avvertivo netta l’immobilità della stanza e degli oggetti dentro il mio campo visivo.
Un corpo vivo che dorme zampilla di vita: può esserci il guizzo involontario di un muscolo, un rumore nell’addome, un respiro.
La morte invece è assenza.
In questa stanza i miei occhi rifiutano quel corpo immobile e fissarlo mi dà l’illusione che siano gli oggetti a essere vivi.
Una tapparella mossa dal vento, lo scricchiolio del parquet, le lancette di un vecchio orologio, il ronzio del ventilatore…
Il mio cervello rigetta quell’immagine e provo un senso di vertigine, come se tutto quello che c’è intorno andasse pian piano in dissolvenza.
Ma è il corpo che sembra allontanarsi.
– Cominciamo? – La voce del collega anziano mi richiama alla realtà; tiene sulle labbra il sorriso di chi la sa lunga…
Sono trascorsi quasi dieci anni da quel momento, ma le stanze continuano a fare rumore.