L’ultimo ballo.

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Maria si affaccia alla finestra.

Lo fa ogni volta che passa di lì: scosta la tenda e sbircia per strada.

Sul muro di fronte ci sono i buchi dei proiettili dell’altro ieri, mentre il sangue è stato lavato oggi dal marciapiede.

Ogni volta si ferma, appena, e guarda fuori.

Nella piazza polverosa sono abbandonati giocattoli silenziosi: tappi, rocchetti e fucili di legno. Di bambini per strada durante la guerra non c’è segno; o sono al fronte o stanno nascosti.

Sopra le case Maria vede il cielo: è blu e rosso, striato di viola; come quella volta alla fiera di paese, quando lui le chiese di ballare; sua madre si accigliò e lei, senza nemmeno rispondergli, tornò a sedersi fissando per terra tutto il tempo.

Il suo mondo è fatto di attese: per la pace che arriva, sembra, da sud; per il papà lontano che ricorda appena e per qualcuno che non si può sapere, perché alla sua età non sta bene.

A volte lascia appesa la tenda alla maniglia, così se ha fretta lancia un’occhiata; gliene basta metà, anche solo per vedere una bici che passa.

Tra la camera e la cucina scosta la tenda di quella finestra per sbirciare, di nuovo, prima che sia sera. Un asino porta due giare, mentre un cane abbaia girandogli intorno e il contadino saluta qualcuno che lei non vede.

Prima di andare a dormire sposta la tenda bianca per l’ultima volta, stasera. Appoggia la fronte sul vetro ghiaccio e tentennando piano la testa guarda le stelle, esprimendo un desiderio. Sospira, la condensa le vela il panorama; con l’indice disegna un’iniziale, ma la cancella subito prima che qualcuno la veda.

Un suono improvviso le strappa le orecchie. Un uomo grida più forte della sirena. Poi un sibilo, si sente appena. Due comari nella piazza guardano per aria e indicano.

Maria alza la testa e la vede e la sente, un attimo prima che una scheggia la raggiunga.

Oggi Maria ha lasciato il loculo dove ha riposato per oltre settant’anni, per entrare in una scatola di zinco.

Mi sembra di vederla, ad ascoltare vecchie canzoni e far finta di danzare col suo amore.

Le prendo la mano guantata di pizzo bianco, la sollevo per l’ulna e il radio e mi regalo l’illusione di accompagnarla nel suo ultimo ballo.

San Valentino.

Red rose isolated  on the white background

Oggi è una bella giornata per essere febbraio.
Il quattordici febbraio.

La porta del cimitero è un cancello mezzo arrugginito che si può aprire semplicemente abbassando la maniglia, come quello di casa. Spalanco l’unica anta e la fermo con una pietra.
Questo piccolo camposanto è sempre nel mio cuore.
C’è una tomba molto particolare, ne ho parlato tempo fa, sul blog, e prima di aggiungere qualcosa di nuovo, ripropongo qui sotto.
Tra i marmi colorati, le scritte metalliche dei nomi, i fiori e le immagini sorridenti, risalta una croce di legno sbiadita, infilata in un cumulo di terra spoglia.
Non è soltanto per la sua semplicità che si fa notare, che talvolta è una necessità o una scelta.
È per il suo abbandono.
Ogni volta che capito lì, su quella tomba c’è solo un fiore.
Sempre un fiore.
Alcune signore, assidue frequentatrici, pensano a togliere le erbacce e mi hanno raccontato quel poco che sanno.
Il nome inciso sulla targhetta di alluminio dorato, fissata alla croce, non lo ricorda nessuno. Si dice fosse una donna sola al mondo che era nata in quel paese ma aveva trascorso la vita lontano. Quando fu sepolta l’accompagnava un uomo, un avvocato: il suo tutore.
Non un parente.
Sulla tomba rimase per alcune settimane un mazzo di fiori; le stesse signore lo gettarono perché era ormai rinsecchito.
Qualche giorno dopo sul cumulo di terra spiccava il bianco e verde di una calla. Semplice, recisa e posata lì. Sembra che ogni settimana quella calla venga sostituita da una fresca.
Nessuna delle signore, nessuno di noi ha mai visto anima viva fermarsi a quella tomba. Ma quel fiore viene rinnovato puntualmente da allora, come una promessa.
Nella mia testa prende forma una storia che ha il sapore di altre storie che ho sentito o letto.
Mi immagino una vita di stenti, forse di violenza, forse di costrizione in uno di quei manicomi in cui si finiva anche solo per soffrire di convulsioni. Vesto quella donna col volto di Alda Merini.
La immagino indistruttibile davanti alle avversità, ancorata alla realtà grazie ai sogni.
Immagino una foto in bianco e nero, un primo piano o una figura distesa, appena svestita, irriverente per i suoi tempi. Immagino una sigaretta accesa, fumata solo a metà.
Immagino un amore vissuto al limite, fuori dal tempo, osteggiato da una società meschina. Immagino appuntamenti tra le foglie cadute in un bosco, baci irresistibili, sospiri e paura.
Immagino momenti di solitudine, colmabili solo con ricordi e speranze, immagino abbandoni e prevaricazioni, sottomissioni e indifferenza.
E poi immagino un addio, perché una storia così può solo finire con un addio.
E immagino qualcuno, che ha amato come non si può immaginare, di un amore proibito e folle, che deve rimanere segreto e sconosciuto per sempre; lo immagino cogliere quel fiore che sicuramente lei amava, che di certo questo amore coltiva con le sue mani e lo immagino venire di buio, oppure la mattina presto, quando è certo che non ci sarà nessuno a vederlo.
È una storia a lieto fine, perché ogni volta che il fiore viene cambiato viene rinnovata una promessa, un ricordo e quella tomba diventa per me un monumento alla vita, alla libertà, all’amore.
Nonostante tutto.
Io, lo confesso, stamani sono venuto qua allungando il giro dei cestini, perché volevo vedere quella tomba, perché mi sento complice di questo amore misterioso, quasi il suo custode.
Dentro è deserto ma non entro neppure.
Apro i tre bidoni che stanno all’ingresso, tolgo i sacchi pieni e metto quelli nuovi senza guardare quello che sto facendo, ma fissando altrove, fissando quel cumulo di terra che rabberciamo da anni, ogni volta che piove forte, e mentre lo guardo non riesco a smettere di sorridere.
Sul cumulo c’è una rosa rossa.

Piove.

 

pioggia

Piove.
Piove da giorni.
Il campo del cimitero è inzuppato che sembra una palude. Non importa quanto si provi a pareggiare la terra con la ruspa; quella sembra che si muova, che sia viva, come se crescesse nutrendosi del nostro passato.
E anche oggi che è un tempo da cani, la terra aspetta il nostro tributo.
Stamani c’è un funerale e dobbiamo preparare la buca.
Abbiamo letto il manifesto: il defunto è molto anziano.
So che è assurdo, e anche ingiusto, ma saperlo lenisce la frustrazione che si prova quando arriva la morte.

Il mio collega comincia a scavare, la ruspa affonda venti centimetri nel motriglio, ma lui continua. Cerco di creare con la pala un piccolo canale per far scorrere via l’acqua che si è accumulata intorno ai cingoli.
La benna entra piano, se le pareti franano sarà un problema proseguire.

Ci vuole più di un’ora.
Poggiamo dei tavoloni sul fango per arrivare dal viale fino alla fossa; lavoreremo meglio e le persone potranno avvicinarsi alla tomba.
Se ricomincia a piovere rischiamo di rimandare il seppellimento: c’è il pericolo che la terra smotti.
Il tempo di pulire gli stivali impantanati e sentiamo la voce del sacerdote distorta dal microfono.
Ricomincia a piovere. Tiriamo su il cappuccio.
Sono venuti a piedi nonostante il tempaccio. Gli ombrelli aperti sopra il corteo sembrano un prato fiorito. Ho scoperto che non guardo mai le prime file di persone dietro all’auto funebre, è lì che si condensa il dolore.
A volte però, sono le prime file che ti vengono a cercare.
Il figlio si avvicina, mi mette una mano sulla spalla, sento una pressione lieve e insicura. Cerca di parlare senza farsi interrompere dall’emozione.
– Ce la fate a metterlo a posto, vero?
– Il tempo ha retto finora, e anche la terra. – Dico – Sì, ce la facciamo.
Mi preme la spalla: vuol dire grazie.
Ci avviciniamo alla fossa, mettiamo il feretro sulla passerella di legno. Prima che ci disponiamo ai quattro capi delle funi guardo dentro.
È piena d’acqua.
La pioggia si fa fitta.
Una signora, la figlia, comincia a disperarsi: come si fa a mettere suo padre in quella piscina.
Se lo chiede, lo chiede a chi gli sta vicino, e poi ci guarda e si aspetta che gli rispondiamo.
Come si fa adesso?
Potremmo metterlo nella cappellina del cimitero e aspettare domani ma…
Sono questi i momenti che danno un senso alla sveglia la mattina.
Al figlio scappa un singhiozzo, non mi sfugge.
Guardo il mio collega, la folla ci osserva.
E se fosse parente nostro?
A questo pensiamo.
È LA domanda.
Scambiamo due parole.
Lui risale sulla ruspa, io prendo due sacchi neri, li accartoccio.
Mi avvicino alla benna e tappo i due fori che stanno ai lati.
Lui accende, cala il braccio meccanico e comincia a svuotare la fossa.
Ci vuole del tempo, l’escavatore si muove a scatti e parte del liquido ricade dentro; una fetta di parete ricade dentro e schizzi di mota si appiccicano ai nostri vestiti, qualcuno sul viso.
ma alla fine la buca è vuota.
Ci sbrighiamo a calare la cassa.
Proviamo a spalare a mano quel tanto che serve a coprire il legno ma la terra sembra liquida.
Allora il mio collega riaccende la ruspa e comincia a chiudere.
I familiari ringraziano, sono sollevati, adesso la tensione si stempera.
Parlano tra di loro, di quanto fosse orribile mettere la cassa dentro mezzo metro d’acqua motosa.

L’acqua continuerà a filtrare una volta chiusa la buca, anche se non la vedranno.

Facciamo il cumulo e mettiamo sopra la croce e i fiori.
I familiari ci ringraziano, lo fanno i figli, la moglie e i nipoti.
– Grazie! – Ci dicono. – Grazie!
Sono quelle cinque lettere a darci un senso, anche oggi.