La cremazione.

Mentre sistemo la stanza degli attrezzi si avvicinano un uomo e una donna.
La tomba del loro caro è a pochi metri.
Cambiano i fiori, puliscono il marmo.
Gli passo accanto salutandoli.
– Avete finito con le esumazioni? – mi fa lui.
– Si continua la prossima settimana.
– Erano consumati? – chiede lei
– Beh, ce n’erano parecchi che abbiamo seppellito di nuovo.
Lei guarda il marito, come a imbeccarlo, lui ricorda la battuta – E cremati? Quanti ne hanno cremati?
Una signora piuttosto anziana lì vicino smette di fare le sue cose e comincia a fissarci.
– Qualcuno – rispondo distratto.
– Ma… – L’uomo indica col mento la tomba del suo caro – Lui quando lo esumate?
– Probabilmente l’anno prossimo, sarete avvisati dall’ufficio quando…
– Non voleva essere cremato da vivo. – m’interrompe la signora – Figuriamoci se lo faccio cremare da morto.
– Tesoro è l’anno prossimo, potrebbe essere pronto.
– Per allora voglio essere convinta – fa lei stizzita.
Il marito mi fissa sgranando gli occhi – Crede sia immorale farsi cremare.
Affronto spesso questi temi, molti sembrano aspettarsi una redenzione dalla nostra risposta, così cerco di stare sul vago per non ferire nessuno.
– Ognuno deve sentirsi in pace per la propria decisione, qualunque sia. Vivere coi rimorsi verso chi non c’è più è la cosa peggiore; sapete – mi tolgo i guanti per fare qualcosa – la maggior parte dei necrofori che conosco vuole essere cremato quando sarà il momento. Ne vediamo così tante, che vogliamo risparmiare l’esperienza dell’esumazione alle nostre famiglie. Non è un fatto etico.
– Lo vedi? – Fa lei smanacciando nel vuoto verso il marito – Io non voglio avere rimorsi.
Lui la prende dolcemente per i fianchi – Per me tu sei tutta grulla! – Si volta e mi saluta.
Lei borbotta finché non escono dal cancello.
 
L’anziana signora adesso si avvicina.
Osserva la coppia uscire poi mi si rivolge.
– Io sono contraria, sa, a farmi bruciare.
La sua pelle intagliata dal tempo fa da cornice a due occhi celesti e guizzanti.
– Sa perché non ho conosciuto mio fratello?
Sto zitto e immobile mentre lei mi fissa tentennando la testa per me.
– L’hanno cremato nel 1943 – i suoi occhi si fanno piccoli – A quelli come me non si può parlare di cremazione, ha capito cosa intendo, vero?
La osservo allontanarsi a piccoli passi.
Mi cade un guanto.
Ho capito.
.

N.M.

Il piccolo coperchio bianco è sbucato all’improvviso.
Il collega ha pettinato la terra centimetro dopo centimetro, dalla ruspa ha visto sfogliarsi la vernice e si è fermato. – Te la senti? – Mi fa.
Non lo guardo neppure: come faccio a dirgli di no?
Entro nella fossa, sistemo la tuta bianca e m’inginocchio.
Scavo con la mestola come quando da bambino giocavo sulla spiaggia.
Quando la terra è smossa la separo dal piccolo coperchio con i guanti.
M’immagino una storia impossibile per occupare i pensieri: a una vita mai vissuta devo almeno un sogno.

N.M. è nato una mattina presto che il sole stava sorgendo appena.
C’era tutta la famiglia.
Iniziò a camminare presto. All’asilo era tranquillo, ogni tanto bisticciava con un bimbo per difendere una compagna.
A calcio non era bravo, così fece rugby. Riuscì a giocare come professionista per alcuni anni, poi si sposò e cominciò a lavorare nell’azienda del padre.
Ebbe due figli, invecchiò con sua moglie e riuscì a godersi i nipoti.

Invece la sua storia è tutta sotto di me.
Ci metto un sacco di tempo, o così mi pare, prima di aprire.
C’è silenzio intorno. Ci sono cinque persone, ma stanno tutte trattenendo il fiato.
Apro.
Prendo la scatolina di zinco e ripongo le cose che trovo lì dentro.
Sono due.
L’elefantino colorato lo metto per secondo.
Guardo la madre, mi fa sì col capo.
Mi alzo.
Esco dalla fossa.
I genitori vogliono vedere.
Un mio collega cerca di fargli cambiare idea ma loro aspettano questo momento da ventiquattro anni: – Siamo pronti – dice lui.
Gli porgo la cassettina.
Io fisso l’elefantino colorato che gli ha tenuto compagnia per tutto questo tempo.
Loro no.
Alzo gli occhi e incontro quelli di lui.
Adesso non possiamo più abbassare lo sguardo, stupidi maschi orgogliosi.
È lei a rompere il ghiaccio: – Posso portare io la scatola fino all’ossario?
Guardo il mio collega anziano, ci mette tre secondi a decidere.
Va a prendere un paio di guanti nuovi, quelli grandi.
– Si metta questi – Le dice.
Ci incolonniamo dietro la sua dignità.
Quando arriviamo ci affida la scatolina. Prendo il pennarello nero.
Cerco di mantenere una buona calligrafia.
Sul tappo scrivo il nome, il cognome e una sola data, insieme alla sigla N.M.
Non sono le sue iniziali,
È l’aria frizzante di quella mattina che non ha potuto respirare, della storia che non ha potuto vivere.
N.M. è una sigla che non si scrive mai per intero.
Neanche adesso.