Distanze.

Siamo quasi in montagna, il funerale è alle dieci.

Intorno le cime bianche sembrano scrutarci con la solennità di una madre d’altri tempi.

Non è neve, che non è stagione, è marmo, un marmo ancora vergine, con intorno le cave che si avvicinano fameliche.

Ci siamo.

L’ingresso nel grande giardino ci mette addosso gli occhi di tutti; alcuni paesani si avvicinano per le solite battutine, come a misurare un’atavica paura che in qualche modo dev’essere esorcizzata:

– Quando vediamo voi bisogna fare gli scongiuri.

– Sì, ma finché li vediamo è buon segno!

– Il vostro mestiere non conosce crisi.

– Da voi prima o poi ci passano tutti…

Non siamo infastiditi, anzi, ci danno l’opportunità di creare un legame dove a volte non conosciamo nessuno.

Poi però cambia il respiro: i rumori si fanno discreti, le parole bisbigliate, si spengono i sorrisi.

L’ingresso è da una porta bassa, l’architrave di pietra grigia che le sta sopra sembra possa reggere da sola tutto il peso dell’edificio e pure lo sguardo delle montagne.

Un corridoio stretto si apre come un delta nel piccolo soggiorno. Accanto al libro per le firme dei visitatori c’è un manifesto celebrativo: la signora che è morta aveva quasi ottant’anni.

Mentre aspettiamo che nella stanza si faccia spazio mi scopro a fissare una brillante targa di metallo; l’ha regalata la comunità per festeggiare i cento anni dell’uomo di casa: è di tre anni fa.

Dalla piccola camera esce una signora sui quaranta, parla un italico straniero. Tiene al braccio un anziano che la segue lento e traballante, lo chiama per nome, lo stesso che sta sulla targa. Lo incoraggia, lui la guarda silenzioso. La sua pelle antica non dimostra gli anni che ha. Abbassa lo sguardo tentennando il capo in un disappunto che non sa destinare.

Poi mi guarda con quegli occhi…

Io li adoro gli occhi degli anziani, sono morbidi e stanchi, luccicano e sostengono sguardi, ma hanno qualcosa che non mi so spiegare, come un velo teso, a sostenere tutto il peso delle cose guardate.

– Non è giusto – mi dice – Non è giusto, queste cose non dovrebbero capitare mai, MAI – gli si incendia lo sguardo – Amore mio, povero amore mio!

Allora me li immagino belli, insieme, felici in un tempo da libro di storia, che di certo non vedeva di buon occhio un amore con tanta differenza d’età; e come mi succede sempre parte il film delle loro vite, tutto inventato, tutto impostato sui miei sogni, falsato dalla mia immaginazione.

Osservo l’anziano finché lo posso vedere, prima che il corridoio lo porti fuori e il sole lo renda una silhouette nera e vibrante. Se ne va indicando alla badante di stare attenta a scendere le tre scalette all’ingresso, che sono pericolose. Sembra sia lui a sostenere lei.

È arrivato il momento: facciamo la chiusura, usciamo.

Mentre aspettiamo il parroco parliamo con alcuni vicini.

Quel vecchio signore abitava lì da sempre, aveva ristrutturato la baracca da pastori del padre. Gli chiedo da quanto erano sposati con la defunta.

– Non era la moglie – mi squadra una signora – Era sua figlia.

L’offerta.

Seguono tutti l’omelia del prete.

Qualcuno col capo basso è illuminato dallo schermo di un cellulare che non riesce a nascondere. Un paio di persone bisbigliano troppo forte dal fondo della chiesa e una signora si volta continuamente per rimproverli con occhiacci severi ma i bisbigli proseguono.

Mi vede e scuote la testa rassegnata.

Anche un mio collega l’ha notata; schiocca le dita per attirare l’attenzione dei disturbatori che s’interrompono per fissarlo; lui palleggia in aria con una mano per fargli abbassare il tono e i due si mettono buoni ad ascoltare la messa.

Non finirà prima di una ventina di minuti.

Senza accorgermene vengo rapito dagli affreschi della navata laterale.

Cammino col capo all’insù tra i colori cupi di un paradiso irraggiungibile, anche da questa distanza.

Gli angeli tristi sembrano voler aiutare la gente che sta sotto, in una festa di braccia alzate e mani che non riescono a toccarsi.

Non capisco da qui quanto la cupola vada in altezza e quanto invece faccia la prospettiva.

Mi riporta a terra una voce sussurrata e ondeggiante:

– Mi scusi…

Voltarmi all’improvviso verso il basso mi fa provare una specie di vertigine, confonde la mia vista posata sulla figura piccola e magra che mi ha chiamato piano, sembra che vibri.

Nell’attimo che la fisso capisco.

Non è la vertigine: trema davvero, di un fremito familiare che mi trascina davanti agli occhi l’immagine di mia nonna materna e una di quelle parole che impariamo a conoscere bene solo quando ti toccano da vicino, piene di K o Z e altre lettere dal sapore esotico che fanno tanto male quando stanno addosso a chi ami.

Trema il suo sorriso imbarazzato, trema la testa piccola e bianca, trema la gamba, trema il piede; il fragile braccio che adesso mi tiene trasmette una sorta di tentennio ipnotico.

Le si vedono i tendini e le vene, tese come le corde di un’arpa.

Con l’altra mano stringe lieve una moneta da cinquanta centesimi che sposta per mostrarmi qualcosa:

– Me l’accende una lampadina? – ondeggia di nuovo la voce senza controllo – Io non riesco.

Di fianco alle panche, dritto a dove ha messo il piccolo indice c’è un profeta che ci fissa severo, sotto si schiaccia un piccolo altarino, illuminato da quelle lampade che si accendono con un’offerta.

Faccio sì, prendo la moneta e la inserisco nella fessura orizzontale.

Cade forte sul ferro e quasi mi vergogno per il rumore che ho fatto.

La guardo, disegna un grazie muto con le labbra.

Si rimette dritta sulla panca, tira su il velo che teneva calato sul collo e il suo volto sparisce dietro una preghiera.

Mentre torno indietro fisso quell’organza punteggiata di merletti: sembra vela, mossa da un vento leggero.