Al piccolo cimitero dobbiamo arrivarci a piedi.
C’è da percorrere una stretta mulattiera; su un fianco si alza la roccia della montagna, dall’altro scendono le terrazze di ulivi e i campi. Sembra di essere sul set di un film pastorale del neorealismo italiano.
Il muretto in pietra compare all’improvviso da dietro una siepe. Lasciamo le carrette e portiamo giù gli attrezzi per le due rampe di scale.
Il problema non è fare una buca a mano, il problema è farla qui.
La pietra della montagna è stata addomesticata solo in parte, in questo piccolo rettangolo la terra si divide lo spazio con sassi e ciottoli.
Rimangono appena tre posti liberi: presto dovremo fare nuove esumazioni.
Tiriamo su le maniche e cominciamo.
Lavoriamo da un’ora e siamo scesi di mezzo metro appena.
Entra una coppia attempata, portano insieme una cassetta da frutta pieno di vasi di fiori.
Noi continuiamo il nostro lavoro mentre loro fanno una visita alle tombe dei parenti, finché non si fermano appena dietro di noi.
È il turno del mio collega adesso, sta smuovendo col piccone i prossimi venti centimetri.
Tira vento e avverto un brivido, vado a prendere la maglia che ho lasciato sulla panchina.
La coppia sta sistemando i fiori sulla tomba di un bimbo.
I posti dove riposano gli angioletti sono perenni; qua dentro però si sta rovinando tutto, lo spazio manca e fa comodo ogni metro quadrato da poter liberare; so che presto dovremo rintracciare i familiari per avere il loro consenso alle esumazioni.
Vorrei temporeggiare, vorrei entrare in fossa al posto del collega, vorrei ci parlasse lui, ma il turno va rispettato.
Sto per camminare sul filo teso della memoria e le parole vanno setacciate.
– Buongiorno, siete… – Indico la piccola tomba, mi fanno sì con la testa mentre continuano a guardare il marmo devastato dal tempo.
La lapide dice solo “1979 – 1983”
– Dovrei chiedervi se siete interessati a… – Allungo una mano, la chiudo a pugno e la tiro a me.
Lui guarda la tomba e appare disteso, lei alza il capo, chiude gli occhi e muove le labbra da cui non esce un suono, ma io ci leggo “Sia ringraziato il cielo”.
Il marito mi mette una mano sulla spalla – È una liberazione – mi dice – Noi non…
Gli faccio capire con un cenno che non servono spiegazioni, che capisco benissimo, che ho visto altre volte quegli occhi.
Lei si avvicina – Tanto – dice – Cosa volete ci sia rimasto là sotto.
Prendiamo un appuntamento e ci salutiamo; sembrano sollevati, come se il ricordo avesse levato l’ancora da questo luogo fisico.
– Oh! –
Mi volto. Il collega è già salito.
Ho venti centimetri di sassi e terra per sfogare questa tensione.