Il tocco.

Ho l’umido nelle ossa stamani.
E pioviggina.
I guanti si sono appiccicati alle mani e cammino senza guardare dove, mentre li tolgo.
All’improvviso mi trovo davanti a una sagoma fragile.
È più bassa di me; i capelli bianchi, raccolti in uno scialle nero tirato su come un cappuccio, si vedono appena.
Gli occhi di marrone limpido mi guardano.
Ha le guance arrossate.
E quelle rughe. Le rughe degli anziani mi ricordano il velluto indossato d’inverno o i solchi dei dischi in vinile raccontano storie, cantano canzoni.
Mi saluta per prima.
– Cosa fa sotto l’acqua! – Mi dice agitandomi la mano contro.
– Io ci devo stare, lei piuttosto…
– Ooh! – Fa spallucce – Ne ho presa tanta nella vita…
Restiamo in silenzio alcuni secondi; sto quasi per salutare quando si avvicina come per confessare un segreto – Lo sa – Si guarda intorno – Mi hanno rubato il lumino!
– La lampadina? Se ne vuole una…
Scuote la testa per dirmi che non ci siamo intesi – Il copri lampada, quel coso di vetro che si mette sopra alla luce – Gesticola con entrambe le mani per descriverlo.
– Ah, la fiamma di vetro.
– Ecco, quella! L’avevo ricomprata per i Morti, e ora… – Allarga le braccia – L’avevo pagata anche cara.
– Venga con me.
Passando dal loggiato coperto entriamo nel magazzino. In un angolo, per terra, ci sono alcuni oggetti di vecchie tombe esumate che lunedì dovremo buttare. Ci sono anche due fiamme di vetro. Una è sbeccata, l’altra sembra buona. La prendo, me la rigiro tra le mani e gliela porgo.
– Provi a vedere se si avvita questa, è un po’ vecchia ma…
– Oh, anche se non si avvita ce l’appoggio sopra, grazie!
Mi fissa
– Quanto le devo?
Sorrido perché è in queste piccole cose che si fa l’Italia o si muore.
– Nulla signora, è roba usata che noi buttiamo.
Lei mi guarda tenendo morbido il sorriso poi, a sorpresa, avvicina una mano e mi carezza una guancia.
– Bellino – Mi fa – Grazie!
Il tocco che ha, il calore che tiene nel palmo, quel complimento… mi viene in mente nonna.
Se ne va salutandomi di spalle.
Senza riuscire a smorzare il sorriso fesso che ho sulla bocca la osservo allontanarsi.
Le gambe e le spalle piegate da chissà quale lavoro, la camminata lenta fatta di piccoli scatti, tentennando piano un passo dopo l’altro.
Penso che la vita può piegarci in ogni modo, ma è la dignità che ci fa andare dritti.

Rituali.

Mi passa da dietro veloce e silenzioso come un folletto, non ci faccio neppure caso, anche se è presto per le visite al cimitero.
Ci scambiamo un buongiorno, meccanico e di circostanza, senza nemmeno guardarci.
Qui ho quasi finito.
Fa freddo.
Quando mi fermo avverto piccoli brividi sul collo. Dice che nevica ma guardo le nuvole che sono grigie e piene: secondo me pioverà.
Ecco, l’allaccio della luce al loculo è pronto.
Ripongo gli arnesi al loro posto nella borsetta di cuoio e torno verso il magazzino.
Lo vedo ancora, è fermo in una delle gallerie davanti a un loculo, ma ho parecchie cose da fare e sono concentrato su quelle.
Cambio un rubinetto in bagno, che sono due settimane che è rotto, butto nel cassonetto due composizioni ormai rinsecchite.
Guardo il campo delle sepolture.
La pioggia dei giorni scorsi ha appesantito il suolo e alcune tombe sono avvallate; metto gli stivali e prendo una pala per riempirle.
Dal centro del campo vedo quasi tutto il cimitero; il folletto passa almeno tre volte prima di farmi incuriosire.
Si muove veloce tra una sosta e l’altra.
È fermo davanti a un altro loculo e con la coda dell’occhio noto un gesto: una preghiera, o un saluto – penso – deve avere più di un familiare qui.
Non faccio rumore e secondo me mica mi ha notato qua in mezzo alle tombe.
Lo vedo di fronte a un altro loculo ancora.
E un altro.
Gesticola.
Sparisce in una delle gallerie, ritorna davanti a un altro marmo, poi un altro ancora.
Mi rendo conto solo adesso che sta ripassando davanti ai loculi che ha già visitato.
Gesticola.
Si passa più volte le mani davanti alla bocca.
Alla stessa maniera, tutte le volte.
Quelli sono tic, piccoli gesti rituali.
Lo so perché da piccolo ne facevo anch’io.
Mi scorge mentre lo fisso.
In quell’istante che si dilata tra il niente e l’imbarazzo mi sorprende la sua espressione esausta.
Si muove adesso in modo diverso, come a confondere le acque, immagina che io sappia.
Mentre si avvicina mi osserva per poi riabbassare lo sguardo, lo fa per alcune volte finché non mi passa vicino.
Sorride.
È un sorriso infantile e amareggiato.
– I morti son tutti uguali – Mi dice mentre passa allargando le braccia.
Se ne va con il suo segreto.
Avverto adesso un brivido che è diverso e sale dalla schiena. Ma non è il freddo.
Mi sento solo in colpa per averlo messo in obbligo di giustificarsi.