Dall’ingresso del palazzo si intravede la porta aperta, al pianerottolo del secondo piano.
Le scale sono larghe, le scenderemo bene. Mentre saliamo controlliamo che non ci siano intralci: togliamo un grosso orcio portaombrelli, una pianta, chiudiamo uno scuretto.
Quando entriamo nell’abitazione il primo di noi chiede permesso, gli altri lo seguono in silenzio.
Il figlio ci stringe la mano, ringrazia prima ancora che facciamo qualcosa.
Ci sarà da aspettare un po’ prima di iniziare la chiusura.
Nel frattempo il cervello assorbe immagini che non si fissano, entrano da sole, come informazioni inutili.
C’è quella calma felpata, quella sensazione di accoglienza fragile, nessuno che fa quello che sarebbe normale fare in una casa.
Passano dieci minuti.
Uno scambio di sguardi con un parente dice che possiamo iniziare.
Chiude il mio collega.
Mentre aspetto mi trovo a fissare una poltrona.
Sembra comoda, ha il poggiatesta; sia quello che la seduta sono leggermente incavati, come se sostenessero un peso ma no, non c’è nessuno.
Cominciano ad avere senso alcune delle immagini di questa casa; si raccolgono tutte insieme dentro la mia testa, cadono come Post-it difettosi.
Sul piccolo tavolino di vetro c’è una rivista aperta alla foto di un lupo sulla neve, sotto, due colonne scritte.
Un telecomando sta sul bracciolo della poltrona comoda. La linea della tenda bianca alla finestra, fa una pensa sopra un pacchetto di rosse morbide, è poggiato storto sulla soglia di marmo, dentro si vede l’accendino.
Un paio di pantofole sta composto sotto il termosifone.
Sul tavolo grande, dentro un vassoio di ceramica, due paia di occhiali, uno aperto, l’altro chiuso. Lì vicino un cellulare coi tasti.
Nel piccolo portacenere trasparente c’è un mozzicone che sovrasta gli altri, sembra si sporga per vedere meglio.
Poi osservo lo sguardo del figlio, quasi assente, fissa qualcosa.
Cerco di intuire la traiettoria.
Finisce su quella poltrona.
Quegli incavi.
Non c’è nessuno sopra, ma sembrano sostenere tutto il peso dell’assenza.