C’erano una volta quattro becchini.
Una mattina si ritrovarono davanti al cancello del cimitero ebraico, per preparare un funerale.
Era molto presto, il sole non si vedeva ancora e la nebbia notturna avvolgeva umida ogni cosa.
Li accolse il canto dei merli, sui grandi alberi del parco interno.
Primo arrivò il Nonno, che era il più anziano; secondo giunse il Braccio, che aveva tanta forza da sollevare una tomba da solo; terzo fu Goccia, che aveva la lacrima facile e non finiva un funerale che non ne avesse versata qualcuna.
Infine arrivò lo Zitto.
Il cancello grosso e pesante sembrò aprirsi da solo, dopo uno sferragliare fastidioso.
Entrare dentro quelle mura piegava le spalle. La conoscenza a volte è pesante da sostenere.
Il guardiano, un omino piccolo e gentile, fece capolino e salutò.
Dopo aver loro offerto un caffè, nella sua casetta dentro al cimitero, porse ai becchini una cesta di vimini piccola che conteneva quattro Kippot blu, fatte a uncinetto.
Non si poteva stare là dentro senza un copricapo.
Così uno a uno le presero e le indossarono.
Prima di usare le pale, i becchini le guardarono: quel giorno avrebbero dovuto scavare a mano la fossa, perché nessuna ruspa sarebbe passata dai viali stretti.
Il Nonno prese la pala più vecchia e consumata; il Braccio prese quella col manico scheggiato, che tanto aveva calli così duri da piallare persino le schegge; Goccia prese quella col manico nuovo; infine lo Zitto prese quella col manico corto, che tanto, mica era alto.
In quel luogo il posto dove riposare si sceglieva in vita.
Uno arrivava nel campo e indicava.
– Lì – diceva, e lì andava, anche se c’era solo terra, o anche se era in mezzo ad altre tombe già costruite. E una volta arrivata la sua ora, lì avrebbe riposato per sempre.
Quando giunsero dove dovevano scavare, trovarono un gazebo.
Tutti e quattro i becchini si voltarono a fissare il guardiano, che da sotto un ombrello grande e nero, disse che la sera prima, un familiare, lo aveva fatto portare proprio per loro, per non farli inzuppare se avesse piovuto.
E infatti piovve.
A turno cominciarono a scavare di buona lena e in meno di due ore la buca era bella che fatta; così i becchini si misero ad aspettare il funerale.
Quando il carro giunse nel cimitero, aiutarono a mettere la cassa sul carretto di ferro. A coprire il feretro c’era un tessuto bianco, con una stella blu disegnata al centro.
– Che bella coperta – Esclamò il Braccio.
Il Nonno gli tirò una zuppa sul collo e disse: – Non è mica una coperta quella, asino! È una bandiera!
Quando il corteo arrivò in prossimità della fossa, i quattro becchini posarono piano la bara per terra, passarono le corde dalle maniglie e la calarono dentro, ancora più piano e pari pari, come voleva il Nonno.
Poi, mentre tutti si paravano con gli ombrelli neri, i becchini presero ognuno la propria pala e cominciarono a coprire.
A un certo punto, a metà del lavoro, appena la terra aveva coperto l’ultimo spigolo della cassa, il rabbino fece un gesto con la mano e il Nonno, rivolto agli altri tre, disse – Fermi!
Allora I becchini si spostarono da una parte, sempre sotto al gazebo e i presenti cominciarono a pregare nella loro lingua. Poi il rabbino disse a tutti di voltarsi, e tutti si voltarono nella direzione dove era la Terra Promessa, e continuarono a pregare.
Dopo aver pregato si voltarono tutti verso un’altra direzione e rimasero in silenzio.
E guardarono a lungo.
Guardavano così forte che gli sguardi pesavano. e i becchini si accorsero che quegli sguardi non erano normali ma vedevano oltre quello che c’era, vedevano quello che c’era stato, come se fosse adesso.
E siccome i quattro becchini, scemi scemi, sapevano bene quali erano quei ricordi, e sapevano cosa era successo dove tutti guardavano, si emozionarono.
Non c’era solo Goccia che versava la solita lacrima, anche il Nonno cominciò a lasciarle andare, lo Zitto pure; e anche Braccio, che di certo non aveva mai pianto in vita sua, quel giorno lo fece.
A un tratto ci fu un silenzio così pieno che superò tutto il silenzio che lo Zitto aveva fatto in vita sua.
Goccia, che, figuriamoci, non c’entrava nulla, si sentì in colpa per quei ricordi che a volte vengono dimenticati e allora si spostò di lato, fuori dal gazebo, solo per prendere l’acqua in faccia mentre cadeva.
Gli sembrò, in quel momento, l’unico gesto che potesse fare per riempire il vuoto che sentiva dentro.