Oggi fa caldo, sto qui a spazzare le foglie dai vialetti del cimitero. Stiro la schiena e mi guardo intorno; i visitatori abituali se ne sono già andati. Il sole si è abbassato e accenta la collina davanti, tra poco stacco.
Mentre cammino nella parte nuova, vedo qualcuno seduto tra le tombe, quasi mi spavento.
Mi avvicino, è un ragazzo.
È appoggiato al casco della moto, seduto su un piano di marmo rosa del Portogallo. Tiene in mano la foto di una donna riccia; anche la cornice è di marmo, dev’essere pesante. Con le dita segue le venature scure della roccia levigata.
Indossa delle cuffie da cui sbuffa una melodia incerta, quando mi vede fa un balzo all’indietro.
– Ohh… M’ha fatto paura!
La passata delle cuffie gli cade sul collo.
– Allora siamo pari – sorrido – Tutto a posto?
– Sì – lo dice sospirando – Perché?
– Ti ho visto qui seduto, a quest’ora; di solito non c’è nessuno.
– Vengo la domenica con papà – muove la testa a indicarmi la foto – È mamma.
Restiamo alcuni secondi in silenzio, poi fa spallucce e conclude – Era.
– Le somigli.
Mi guarda e stira un sorriso, poi si fa serio in un modo adulto.
– Mi ha detto papà che domani la togliete.
Mi sposto per sbirciare l’anno di morte.
– Mmm… Mi sa di sì.
Abbassa la testa.
– Non vuole che io assista.
Lo guardo zitto.
– Cavolo! – il ragazzo mette a posto la foto e comincia a sbracciarsi – Secondo lei: può farmi impressione vedere i resti di mia madre? – si batte le mani sul petto – A me, che leggo Dylan Dog e divoro film e romanzi dell’orrore!
Adesso dalle cuffie esce un suono vibrato di violino.
– Anch’io leggo Dylan Dog – Dico.
Mi fissa.
– Ma se glielo chiede lei a mio padre?
– Cosa?
– Se posso assistere. Lo faccio venire qui con una scusa e…
– Ascolta – accompagno la mia tesi gesticolando – Ho due figlie: se un estraneo mi venisse a dire cosa devo fare con loro, dopo essere stato preso in giro, cosa credi che risponderei?
Ci pensa un po’.
– È vero. Però è strano, con lui parlo di tutto, abbiamo un bel rapporto: non capisco perché su questa cosa non… – con lo sguardo afflitto fissa per terra – Io la voglio rivedere.
– Ti ha detto perché non vuole?
– No.
– Gliel’hai chiesto?
– No.
– Lui ci sarà domani?
Fa sì col capo.
– Scommetto che provate la stessa emozione, e rabbia; forse vuole solo proteggerti.
– Non ci avevo pensato… Io ci devo essere porco cane! – Con un pugno colpisce il casco che rotola in mezzo al vialetto – Quando ho un compito in classe, o un problema, vengo qui la mattina presto e le chiedo di… – gli occhi adesso scintillano di gocce che si gonfiano senza cadere – Lei crede che i morti ci proteggano?
Cerco la risposta fissando nel vuoto del casco capovolto, vorrei dirgli che quella protezione ce la diamo da soli, quando crediamo in qualcosa con forza, ma non sono un filosofo, sono solo un becchino.
– Mi piacerebbe – dico.
Resta un po’ in silenzio a giocare col filo delle cuffie, poi mi si rivolge sorridendo.
– Le faccio ascoltare una cosa – smanetta col cellulare – La registrazione non è un granché, viene da una vecchia videocamere a cassette.
Parte un lieve fruscio, in sottofondo si sente appena un borbottare di bambino, poi una voce calda e gentile di donna.
Racconta una favola, la racconta impostando la voce con versi buffi. Racconta di una principessa scalza che correva per il mondo, che si bucava i piedi se camminava piano e perciò correva, correva senza cura; racconta che non si poteva innamorare di nessuno dei principi con le scarpe. Racconta che un giorno incontrò un principe scalzo, come lei, che come lei correva, e cominciarono a farlo insieme, pazzi per il mondo…
Alla fine della favola la mano che tiene il cellulare rovina sulle gambe, come se non riuscisse a sostenere un peso troppo grande e improvviso.
Adesso le gocce nei suoi occhi pesano più del pudore. Si volta fissando altrove, si asciuga, mi guarda di nuovo.
– Va bene, ci parlerò, da uomo a uomo!
Gli faccio un teatrale sì con la testa e simulo un applauso.
Si alza in piedi.
– Grazie!
Raccoglie il casco con un balzo, se lo mette in testa mentre corre. Poi si ferma all’improvviso in mezzo al vialetto, strusciando i piedi: mi fa due buche così nei sassetti.
Si volta tenendosi per le cinghie dell’elmetto colorato.
– Me la toglie lei mamma, vero?
Un brivido forte mi sale dalla schiena.
– … Sì – gli sorrido.
E corre via.
Domani è il mio giorno libero.
– Era – penso mentre rastrello il vialetto.
Domani è arrivato così presto…
Il tempo è come la bolla dentro una livella. Ci sono momenti in cui la mia vita sembra muoversi per conto suo rispetto al resto del mondo.
Scendo dal letto tastando coi piedi per terra finché non trovo le ciabatte. Mia moglie dorme, lascio spenta la luce per non svegliarla; guardo nel buio, cerco di indovinare i suoi confini, le tocco piano una mano perché ho paura che non sia vera, che mi possa mancare la materia del suo corpo vivo.
In bagno mi muovo al rallentatore.
Eccomi.
Lo specchio non mi riflette completamente. L’immagine, certo, è quella, ma ciò che parte da dentro s’infrange sulla corteccia; il vetro non la racconta.
Questa cosa fredda e silenziosa che mi fissa scompare dietro al vapore dell’acqua calda; m’insapono e comincio a radermi; non importa che guardi, sono trent’anni che lo faccio.
Penso che sto usando un rasoio a quattro lame perché con una sola di solito mi taglio e penso che sia strano, come sono strane molte delle cose a cui sono abituato.
Penso a quello che dovrò fare oggi, penso che dopo tanti anni da necroforo ho visto più gente morta che viva, che dovrei essere abituato a tutto, e invece niente.
Penso che l’acqua fredda mi svegli più del caffè.
Penso ad altre idiozie, così smetto di chiedermi se quel ragazzo oggi ci sarà.
Il collega che guida il camion aspetta che noi altri due si scarichi la ruspa. Lo salutiamo, gli dico che lo chiamerò quando avremo finito, per farci venire a prendere.
È una splendida giornata, tira un filo di vento piacevole che spazza la collina dove ci troviamo. La città è ancora zitta e si vede appena, mescolata tra le piante che frusciano come bisbigli.
Le esumazioni della mattina passano veloci, i volti dei familiari si succedono uno dopo l’altro, ognuno una storia. Quando suona mezzogiorno il mio collega sta spianando la terra smossa; io finisco di murare gli ossarietti di zinco al loro posto.
Pausa pranzo la trascorriamo seduti fuori dal cimitero, sul culmine della collina, appoggiati al tronco di un grosso leccio. Muovo la testa giocando con la corteccia rugosa.
Il vento è cambiato, arrivano odori nuovi, odore di caffè; dice che quando si sente il caffè poi pioverà.
È l’ora di ricominciare.
Ci alziamo già stanchi, le ossa delle ginocchia schioccano. Svolgo i miei lavori senza smettere di pensare che l’ultimo di essi avrei voluto che fosse il primo, perché mi sarei ormai già tolto il pensiero di quanto sarà pesante violare quella tomba rosa.
Oltre il muro sento avvicinarsi un’auto.
Sono due gli sportelli che si chiudono; rimango incerto finché non lo vedo. Il ragazzo di ieri entra sorridente, suo padre è più alto di lui di parecchio, gli tiene un braccio sulle spalle, sorride gentile sotto due baffi curati.
Il ragazzo mi fissa, muove le sopracciglia come una vittoria.
Stringo la mano all’uomo, mi rivolgo al ragazzo, la stringo anche a lui:
– Giovanotto…
Il sole proietta la mia ombra nitida sul marmo che sto per rompere. Sollevo la mazza di ferro. Mi chiedo se anche questa sagoma nera sia una semplice proiezione o anche quella un riflesso. Forse appartiene alla creatura che mi fissa tutte le mattine allo specchio, forse è la parte di lei che temo.
Allora rompere questa tomba con questa cosa sopra mi fa meno rabbia.
Dietro di me ci sono due altre ombre: una più grande e una più piccola.
Le vedo muoversi sulla mia, confondersi, come se il sole si divertisse, le allungasse apposta per ricordarmi che non sono solo, che il dolore nelle ombre non si vede.
Allora parte il primo colpo, il secondo e il terzo e il marmo si sgretola, anche lui che sembrava così forte.
Il collega accende l’escavatore che si impenna come un cavallo, mentre ferisce la terra, ma poi riesce a domarlo e diventa docile quando carezza piano coi denti il coperchio del vecchio feretro.
È ancora integro.
Respiro sollevato, perché vuol dire che la cassa non sarà piena di terra, che forse l’umidità avrà consumato questa povera, giovane donna, che a questo ragazzo sarà risparmiato un brutto spettacolo, di cui mi sarei sentito in colpa.
Scendo.
Con la pala pulisco la superficie ancora levigata del legno.
Faccio leva e il tappo si apre con un tonfo sordo. Lo alzo piano, è pesante.
Tengo il fiato sospeso sperando che la salma sia consumata.
Il mio sguardo entra dentro, infrange la sacralità del sepolcro, incontra due orbite vuote. Le riempio con gli occhi verdi della donna riccia nella foto.
Più in basso si distende un vestito viola fatto di gale e merletti. Un velo di raso copre la testa.
Deglutisco.
Guardo il ragazzo, mi sta fissando.
M’invento un sorriso mentre gli alzo il pollice, lui guarda suo padre, suo padre fissa il ricordo di sua moglie.
– È il suo vestito da sposa – gli dice – Era bellissima.
Adesso il giovane annega nell’abbraccio di lui.
Indosso guanti così spessi che non sentirei una martellata, eppure quando setaccio tra questi vestiti mi sembra di stringere spine.
Compongo le ossa nella cassetta di zinco come fosse un mosaico. Il ragazzo adesso si fa forte, è accigliato, ha occhi rossi e gonfi. Quando chiudo la scatola sento un forte sollievo; mentre muro l’ossario loro parlano con voce distesa.
Ci salutiamo, la mano del ragazzo stringe forte, ha un sorriso complice.
Li vedo andarsene, di spalle, sul vialetto di sassetti grigi.
Ripenso a quella favola, a quella voce dietro il fruscio, a come va a finire quel racconto dell’amore tra due folli coi piedi scalzi, che smisero di correre solo quando incontrarono la sabbia. Allora cominciarono a camminare piano, perché la sabbia era morbida e fresca. E assaporarono il mondo. Così le orme aumentarono; in mezzo comparvero quelle di due piedi piccolini.
Fisso quei passi muoversi piano sui sassi. Posso solo immaginare quanto pesi l’assenza di quelle orme scalze accanto alle loro.
Vibra il cellulare.
È il nostro collega, dice che il camion non parte, che è lontano, che lo andranno a prendere, e solo allora lui verrà da noi. Ma ci vorrà tempo.
Si fa buio.
Aspettiamo sulla cima della collina sopra al cimitero.
Il mio collega è disteso sull’erba e fuma un sigaro alla vaniglia, io sono seduto.
Le fronde nascondono le luci della città e il cielo è un teatro punteggiato.
Una volta ho sentito dire che tutte quelle stelle appuntate sono i desideri realizzati; allora penso che da questa sera ce ne sarà una in più.
Il mio sguardo finisce dentro al cimitero sotto di noi, incontrando un altro firmamento nella distesa di lampadine.
Forse sono i desideri mai avverati, che restano attaccati al proprio sognatore, per sempre.
Alzo la testa, la riabbasso, l’alzo ancora.
Annego in un’angoscia sottile quando penso che il sopra e il sotto sembrano specchiarsi.
Ma tra i due, mi chiedo quale sia davvero l’immagine e quale il riflesso.