Un lenzuolo bianco

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Entrando nella morgue si accede a una dimensione diversa dalla realtà.

E’ un limbo.

Un luogo in cui restano in sosta i corpi, tra l’istante della morte e il momento dell’esposizione nella camera ardente. E’ quel periodo di transizione in cui un corpo muta anche giuridicamente, passando dallo status di salma a quello di cadavere.

La maggior parte delle morgue che ho visto ha un aspetto metallico, asettico, quasi futuristico. Lettighe, lavabi e armadietti sono di acciaio e le stanze rivestite di ceramica bianca. In qualche punto si staglia la cella frigorifera, di varia grandezza.

E poi fa sempre freddo.

La temperatura deve rimanere bassa per preservare i corpi, anche d’estate. Quel ghiaccio così innaturale che si avverte fin dentro le ossa, si presta perfettamente per un simile ambiente.

Ho sempre la sensazione di vivere in un incubo messo in pausa: tutto è immobile, fisso. Le lenzuola bianche che avvolgono i corpi sulle lettighe, sembrano nascondere un mistero.

Il mistero della morte.

Come se fossero il panneggio di una statua di Michelangelo, nascondono la fissità di un corpo. Non riesco ad abituarmi all’assoluta mancanza di movimento; è come se il mio cervello la rifiutasse, come se inconsciamente volessi scacciare il fatto che anche io…

Ho sempre avuto la sensazione che l’immobilità di questi luoghi fosse innaturale.

Tutti gli oggetti sono inanimati, ovvio. Ma le stanze di una casa, un locale, un teatro, sembrano pulsare, respirare una sorta di vita parallela.

Fate attenzione a quando siete soli in una stanza: non sentite il vostro respiro? Non vedete muoversi ritmicamente la cassa toracica? Non avvertite un fremito involontario, un muscolo che scatta, una deglutizione? E non vi ha mai dato l’impressione che quella stanza viva con voi? Per voi? Che siate voi a darle un senso?

Nelle morgue sembriamo immobili anche noi, infilati nelle nostre tute bianche, asettici, ad eseguire sempre i soliti movimenti, come in una danza rituale.

Sembra che sia quel luogo a far perdere anche a noi la nostra umanità.

E quando gli occhi cadono su quelle lettighe, sotto quelle lenzuola talvolta intravediamo… sembra quasi che…

Ma distogliamo lo sguardo e ci sforziamo di vedere semplicemente un tessuto inanimato.

Un lenzuolo bianco.

Sembra che dorma

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Ci sono frasi di circostanza che si dicono in presenza di un defunto, frasi “totem” che servono per rassicurare e dare forza ai familiari.

“Però è rimasto bene”, “guarda, è tornato come era prima di ammalarsi”, “E’ così rilassato, si vede che non ha sofferto”.

Allo stesso modo ci sono quelli che esprimono un ricordo effimero, una memoria mescolata a sensazioni: “Ha lavorato tanto”, “Ha sempre aiutato gli altri”, “E’ stato come un padre”.

Il fatto stesso di avere il proprio caro tanto vicino che basta allungare una mano per rassicurarsi, col tatto, che è ancora presente, è come l’estremo tentativo di trattenerlo, impedire che se ne vada davvero.

Il momento peggiore è la chiusura del feretro.

E’ l’inizio del distacco, lo schiaffo che fa capire con brutalità che quella persona così immobile se ne andrà davvero dalla sua quotidianità. Quando arriviamo a questo punto, capita che un familiare si faccia prendere dalla disperazione e contiamo su qualche parente o amico, che abbia la freddezza di convincere quella persona a uscire, o abbia la capacità di calmarla.

L’uscita di scena è un limbo che dura fino alla funzione o, in mancanza del passaggio religioso, all’arrivo al cimitero. E’ il momento in cui noi portiamo fuori la cassa fino all’auto funebre e durante il quale i familiari si occupano di piccoli gesti come prendere gli effetti personali, vestirsi, chiudere la casa.

L’altro momento terribile è il saluto finale al camposanto, dove la presa di coscienza del distacco è totale e irreversibile.

Oggi se n’è andata un’anziana signora, una vicina di casa. Negli ultimi anni si è vista poco fuori, ma la ricordo con piacere. Era piccola e sorridente. Sempre pronta a ricambiare un saluto o un complimento ai figli.

Entro in punta di piedi. Naufrago in un mare di domande tecniche, perché in quel momento sono l’unico che “sa”. Sono il bersaglio di tutte le insicurezze e mi imbarazzo. Fornisco risposte discrete, cercando soprattutto di non deludere le loro aspettative. Mi trattengo qualche minuto.

Faccio le condoglianze, saluto i presenti e guardo un’ultima volta verso la signora.

Hanno ragione.

“Sembra che dorma”.

Storie di vite

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I defunti ci parlano.

Spesso questa frase è riferita al suo significato soprannaturale, soprattutto nella fiction, al cinema o sui libri.

Nella realtà i defunti ci parlano davvero; un linguaggio muto, espresso dai loro familiari, che accompagnano l’addio del corpo di un loro congiunto, depositando qualcosa che ha significato molto in vita.

Questi oggetti tornano alla luce con i loro accompagnatori, dopo un viaggio che dura, a volte, decine di anni.

Un viaggio allucinante, immobile eppure mutevole, durante il quale accadono eventi chimici così sorprendenti, da essere paragonati solo a quelli che avvengono durante la nascita.

Gli oggetti assistono passivi a questi cambiamenti, cambiando a sua volta per le sostanze con cui vengono in contatto. E si muovono, a causa del corpo che si dissolve ma quando tornano alla luce raccontano una storia.

Al momento di un’esumazione questi oggetti sono il ponte che collega il presente al passato, ai momenti intimi che hanno rappresentato, alla quotidianità che hanno descritto.

E i familiari  si stupiscono della presenza di un cappello o un accendino, una bottiglietta o un libro, un disco o una coperta ripiegata sul petto; come se il tempo trascorso dalla chiusura di quel feretro, fosse una distanza reale, un viaggio fisico verso una destinazione identica, che può durare una vita intera e durante il quale un oggetto può anche essere smarrito.

E invece resta lì, fedele come un cane, puntuale e sorprendente a rammentare a cosa è servito, a cosa ha significato per quei resti, quando erano vivi.

Perchè alla fine, sia per i vivi che per i morti, l’unico viaggio reale è quello della memoria.

 

Le gazze ladre

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I mesi di novembre e dicembre, che legano la ricorrenza dei defunti e le feste di Natale, sono incredibili

Un vortice che non concede tempo; i cestini sembrano riempirsi da soli per qualche misteriosa legge fisica: sono continuamente stipati di vecchi fiori, vasi, vetri rotti, bottiglie di plastica; il tempaccio lascia tracce di scarpe anche dentro le gallerie coperte; gli odori sono forti, avvolgono le narici, fanno starnutire; si passa al setaccio il cimitero, scopa alla mano, per cercare di tenere puliti i corridoi.

Le pubbliche relazioni si intrecciano al lavoro manuale.

Molti non ricordano dove sia la tomba che stanno cercando e, se sono fortunati, il cimitero ha un ufficio sempre aperto e un custode che può accedere al database computerizzato, altrimenti si deve usare l’intuito per cercare di accontentare la gente.
Capita di vedere persone molto anziane, talvolta anche claudicanti, che vincono le proprie difficoltà per riuscire a portare un saluto alla tomba di un loro caro;
bimbi piccoli che cercano di capire in quale nuova avventura siano capitati, guardandosi intorno tra stupore e timore.
Qualcuno fa l’arrogante, sebbene si presenti al cimitero solo in questo periodo, e si lamenta che non ci sono abbastanza scalei, o scope o cassette per raccogliere i rifiuti, senza pensare che intorno a lui stanno gravitando decine di suoi simili che hanno già preso quegli oggetti; basta aspettare che tornino a riporli, con un po’ di pazienza.

Alla sera le gambe fanno male, i piedi bruciano e la schiena reclama il materasso, però ci si addormenta felici, perché della maggior parte delle persone rimangono i sorrisi, i ringraziamenti per avere rialzato una tomba la cui terra aveva ceduto o per aver sostituito una lampadina bruciata.

E poi, proprio mentre la veglia sta per lasciare il passo al sonno, torna alla memoria quella vecchia signora dai capelli bianchi che si avvicina e mi acchiappa un braccio con la mano piccola e rugosa. Una presa che si trasmette lieve, delicata e incerta. Si guarda intorno, assicurandosi che nessuno la senta e si avvicina per parlarmi in un orecchio:

– Non c’è più bene! – Si distanzia, mi guarda complice, poi torna vicina – Io lo so, perché parlo con le gazze ladre sa? Me lo hanno detto loro: non c’è più bene; questi qua – Avvolge con un gesto tutto il cimitero – Sono tutti fiori finti! La gente non ne porta più di quelli veri e qui rimane tutto finto, tutto morto. Questi – Scuote il mazzolino che tiene nell’altra mano – Questi sono veri ma quando morirò io, che succederà? Vedrà che spariranno anche le gazze ladre.

Pone il mazzolino nel contenitore di un loculo e si allontana, fissandomi con uno sguardo complice, perché solo lei è a conoscenza di questo segreto e lo ha rivelato proprio a me.

Arriva al grande cancello in ferro battuto si volta un’ultima volta, alza un braccio per salutare e allontana nella prospettiva della grande siepe che costeggia il viale esterno, fino all’uscita.

Gli occhi mi si riaprono e per fortuna ho la certezza che non è stato un sogno, quella vecchina ha incrociato davvero la mia vita oggi.

Le gazze bianco , nere e impertinenti sono le altre custodi del cimitero; girano tra gli alberi, azzardano a entrare dentro a un loggiato, scappando impaurite quando qualcuno si avvicina.

Mi viene un pensiero sciocco, mi sale un brivido lungo schiena; penso che domani passerò di nuovo di là e non sarò tranquillo finché non avrò visto che la foto su quel loculo non è quella di una simpatica vecchina dai capelli bianchi…

 

“Non è fatto”

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Siamo impegnati nell’estumulazione ordinaria di alcuni loculi. E’ stata una giornata complicata perché abbiamo trovato dei corpi mummificati. Di alcuni i rispettivi familiari hanno deciso per il riseppellimento quinquennale; un paio hanno optato per la cremazione.

Per comunicare tra di noi la possibilità o meno di ridurre dei resti umani, utilizziamo la formula “E’ fatto”, “Non è fatto”. Poi il responsabile riferisce ai cari presenti la notizia, con formule più consone.

L’ultimo intervento del pomeriggio è stato indimenticabile.

Abbiamo tolto il marmo. La donna che raffigura è lì dentro da oltre trent’anni. Appena smurati i mattoni che sigillano il loculo, ci siamo trovati di fronte a un feretro praticamente intatto.

Solitamente sulla cassa attecchisce la muffa, si sfoglia la vernice, oppure il legno è così logoro da sembrare sughero. Quella cassa invece, togliendo un po’ di opacizzazione dovuta forse all’umidità, sembra appena messa.

Inseriamo il vassoio d’acciaio su cui poserà la cassa per l’intera operazione e notiamo che è sigillata da tre fasce di alluminio. All’epoca della tumulazione era obbligatorio metterle per i defunti che arrivavano da fuori comune.

I familiari ci confermano che la donna era morta in un ospedale fuori zona.

Togliamo il coperchio di legno, apriamo quello di zinco (nei loculi, nei sepolcreti e nelle tombe di famiglia è obbligatorio che il corpo sia prima deposto in un feretro sigillato di questo materiale e quindi nella cassa di legno).

All’interno il corpo è avvolto in un telo di plastica. Oggi esistono materiali biodegradabili, ma un tempo per effettuare lunghi viaggi e evitare che ci fosse dispersione di liquidi, veniva usava la comune celluloide trasparente.

Nonostante il mio paio di guanti belli spessi, sollevo i lembi del telo con due sole dita, lentamente. Mi aspetto l’ennesima mummia, invece il corpo della donna si è  mantenuta in maniera incredibile, ad eccezione di un pallore giallognolo del viso.

Era piuttosto anziana al momento della morte ma nel tempo trascorso ha conservato le rughe del volto, le labbra (mentre di solito nei corpi mummificati sono consumate) e sotto le palpebre chiuse si nota ancora la sfera del bulbo oculare. E’ un tessuto talmente molle che si consuma precocemente nei primi processi di decomposizione. Infatti, nei corpi non mineralizzati, di solito le palpebre ripiegano all’interno dell’orbita, su un occhio probabilmente atrofizzato.

Non avevo mai visto niente di simile. Per la prima volta ho provato la reale sensazione che quel corpo non fosse morto ma dormisse semplicemente e che da un momento all’altro potesse alzarsi e andarsene coi suoi piedi.

Può darsi che al momento della morte abbiano effettuato sul corpo della donna un’iniezione di mantenimento che, in combinazione con la chiusura nella plastica e la sigillatura nello zinco, ha permesso ai tessuti di rimanere intatti.

Sono così stupito da non accorgermi che nel frattempo un familiare si è avvicinato: “Come va?”

Mi volto e mi scappa un “Non è fatto”.

Arrossisco un po’. La prossima volta sarò più formale.

Promesso.

La memoria e il coraggio

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Servizio funebre in giacca e cravatta.

La prassi prevede che arriviamo sul luogo convenuto; al momento giusto portiamo i fiori all’esterno, chiudiamo il feretro e lo mettiamo nell’auto funebre.

Dunque ci rechiamo presso l’abitazione della defunta. Fuori c’è un discreto assembramento di persone, tutte molto giovani. Esattamente come la ragazza che dobbiamo portare via: siamo stati avvertiti.

Ci mettiamo tutti e quattro ad aspettare, un po’ defilati, per non disturbare. Poi iniziamo il nostro lavoro.

 

Lei è giovani.

Sì È, non Era.

Perché adesso resterà giovane per sempre.

In questi casi non ti dai pace. Quando esci di casa con un giovane nella cassa, senti sempre di fare qualcosa di sbagliato, come se a sbagliare fossi stato tu, come se tu fossi un ladro che si appropria di chi invece dovrebbe restare.

Fuori dalla vecchia chiesa medievale piove. Stiamo in auto a smanettare col cellulare. Ogni tanto usciamo, a turno, per capire a che punto sta la messa.

Tocca a me. Entro nell’ampia navata gremita. Nonostante le tante persone, dentro fa freddo. Ci siamo quasi: i due sacerdoti che officiano la funzione, concludono con la benedizione del feretro.

Due ragazze guadagnano il pulpito, un po’ imbarazzate. Una tiene un foglio in mano. Lo apre piano, guarda verso la platea. Il microfono rimanda un profondo sospiro.

Le parole non contano, conta il contenuto, il senso di quello che la donna sta leggendo. E’ bionda, taglio curato, vestito elegante. La sua vita continua.

In quella lettera invece c’è il messaggio, indirizzato ai presenti, di una vita interrotta.

L’ha scritto la ragazza defunta, consapevole che non avrebbe potuto leggerlo, conscia di scriverlo proprio per quel momento.

Si scusa quasi per il lungo periodo di malattia, si dispiace di non aver potuto festeggiare il suo 40° compleanno con amici e familiari, a meno di un mese da lì. Si raccomanda di non dimenticarla ma nemmeno di rimpiangerla, prega tutti di continuare e vivere intensamente.

Mentre scorrono le parole, immagino cosa avrà pensato la ragazza, quanta forza deve essersi fatta, per accettare la certezza che quella lettera, lei non l’avrebbe sentita.

La bionda lettrice non riesce a leggere d’un fiato; si interrompe, si commuove. Poi torna a sedersi.

La routine si riappropria della scena: entriamo, mettiamo i fiori all’esterno, portiamo fuori il feretro. Mentre scorriamo la navata fino all’uscita, la gente applaude e tu vorresti sparire. Quando tutto è a posto l’auto funebre parte. Noi stiamo subito dietro, in auto, silenziosi per tutto il viaggio di ritorno.

Non è mai routine.

Oltre la morte

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Avvertenza: Non è un post soprannaturale

Sembra che le orecchie siano una delle poche parti del corpo umano (se non l’unica), che crescono finché l’individuo ha vita.

Però ce ne sono alcune che continuano  a farlo anche dopo la morte.

Tessuti come quelli delle unghie e dei capelli, una volta sopraggiunta la fine, proseguono la loro vita per un periodo variabile, comunque breve,

Però devono esserci le eccezioni.

In alcune, rare occasioni, durante esumazioni o estumulazioni (soprattutto quest’ultime, perché non c’è la terra consumare i tessuti), di fronte a un corpo ancora integro, ho assistito alla sorpresa dei familiari nel trovare le unghie o i capelli del proprio caro, estremamente più lunghi, rispetto al momento della chiusura del feretro.

Naturalmente ignoro come fosse lo stato di questi tessuti al momento della morte e non posso contare sulla memoria dei parenti; però una volta sono rimasto stupito, nel constatare che le unghie del defunto erano veramente lunghe e trasandate, come se per uno, due mesi nessuno le avesse curate. Un fatto strano, perchè solitamente la cura del corpo è uno dei passaggi della vestizione del defunto.

Sono certo che questi fattori come le unghie o i capelli eccessivamente lunghi, stato di conservazione oltre la norma, ecc… abbiano contribuito, in un passato remoto, quando la scienza ignorava il procedimento di decomposizione o conservazione dei tessuti; a creare miti come il vampiro.

Questioni di decomposizione

Il segreto per una corretta decomposizione?

Non esiste, mi spiace.

Se a qualcuno è venuto in mente di curare il proprio corpo anche dopo il passaggio su questa terra, sono desolato, non ci sono rimedi efficaci.

Puoi fare fitness, yoga, vivere in poltrona, mangiare vegano o spolverare vassoi di salsicce… Quando finiamo lì sotto (là dentro, là fuori o in qualunque posto capiti di trovarsi), non è possibile assicurarsi di non fare brutte sorprese ai nostri parenti.

Ci sono due modi per stabilire le modalità di decomposizione di un corpo: lo studio teorico e l’atto pratico.

Dal primo scaturisce tutta quella letteratura scientifica che serve per stabilire con oggettiva esattezza gli stadi successivi dì decomposizione e alimenta discipline mediche, criminologiche e letterarie.
Il secondo non è una scienza esatta ma deriva dall’esperienza diretta di chi, per lavoro, ha a che fare con cadaveri che da anni giacciono in un feretro.

Io rappresento il secondo caso.

La mia sensazione è che nel disfacimento fisiologico di un corpo, sopraggiungano eventi soggettivi tali, da far insorgere tutta una serie di problematiche che portano a due situazioni opposte: la mummificazione dei tessuti, o la mineralizzazione precoce.

Una differenza alla fonte la fornisce il luogo dove viene deposto il feretro: nella terra o nel loculo.

Da quel momento tutto può succedere. Entrano in gioco fattori come l’umidità, le infiltrazioni d’acqua, il tipo di terra (più o meno ricca, dipende da quanto tempo accoglie spoglie mortali), resistenza o meno del coperchio del feretro alla spinta del terreno (se cede nascono tutta una serie di ipotesi), la presenza di alberi (che arricchiscono il terreno).

Per quel che riguarda la mia esperienza, in presenza di corpi non decomposti, nei loculi ci troviamo di fronte a tessuti asciutti, nella terra solitamente molli.

Ci sono le eccezioni.

Una delle precauzioni che un’impresa funebre prende sempre, è impedire che eventuali liquidi possano fuoriuscire dal feretro, prima che esso sia deposto. Nella seconda metà degli anni ’90 cominciarono a diffondersi dei materassini biodegradabili, che assicuravano una tenuta ottimale e che si scioglievano dopo qualche tempo, permettendo ai liquidi di fuoriuscire.

Prima di allora venivano utilizzati teli di plastica: avevano una grande resistenza ma giungevano intatti al momento dell’esumazione.

In questi casi tutto quello che un corpo produce viene trattenuto, impedendo il processo naturale di deterioramento biologico e creando casi sempre diversi.

Spesso i parenti dei defunti che non si sono consumati, raccontano che il loro caro aveva effettuato cure lunghe e pesanti. Talvolta ci sono medici tra i parenti, secondo i quali, sono i cibi pieni di conservanti che mangiamo a farci mantenere intatti.

Sono soltanto teorie.

Immagino basti che un liquido non ottemperi alla sua funzione e si modifichi il suo PH, per condizionare i successivi stadi di decomposizione.

Le variabili e le varianti sono così numerose da rendere impossibile ogni congettura su quale stato troveremo un corpo.

Tale e quale

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Stiamo facendo delle estumulazioni, togliamo cioè alcune casse dai loculi.
Il familiare pesticcia nei paraggi senza mettersi mai nel mezzo alle nostre operazioni. Piano piano rompe il ghiaccio con domande sul nostro mestiere e ci osserva con sguardo assente mentre togliamo i vecchi mattoni.

Ha gli occhi tristi.

Non è normale avere occhi tristi in queste occasioni. Solitamente i parenti mostrano impazienza, curiosità, nostalgia. Chi ha gli occhi tristi di solito ci racconta una storia altrettanto triste, come se la morte fosse giunta senza che un ciclo fosse chiuso.

Il familiare rievoca la vita di suo padre, che tornando in bicicletta dal lavoro fu travolto da un’auto, rimanendo ucciso sul colpo.

Era il 1967.

Aveva 32 anni, Il figlio 7 e stava per rivedere suo padre a 55.

La sua storia era così sincera e dettagliata, che mentre raccontava immaginavo la scena come un film in bianco e nero, ricollegando quel fatto ai volti del capolavoro “Ladri di biciclette”.

Quando arriva il momento di aprire la cassa rimango di stucco.

Guardo la foto sul marmo e mi stupisco di quanto il defunto sia ancora somigliante a quella.

Non capita facilmente. Una salma non si riconosce nella foto esposta, perché l’immagine può essere antecedente la morte di anni o anche solo per il fatto che la faccia di solito è consumata.

L’uomo è mummificato: impossibile fare la riduzione. Il figlio si avvicina e rimane in silenzio. Noi con la scusa di riordinare gli attrezzi lo lasciamo per un po’ da solo coi suoi ricordi.

Quando ci avviciniamo per spostare la salma mi accorgo che il volto dell’uomo è praticamente intatto. I capelli sono al loro posto, il volto è diventato scuro ma totalmente integro e riconoscibile

Sembra il negativo della foto commemorativa fissata sul marmo.

Chiediamo al figlio se possiamo chiudere la scatola biodegradabile con cui il padre sarà seppellito a terra per i prossimi 5 anni.

Dice sì, ci saluta poi guarda di nuovo verso la scatola.

– Ciao babbo.

Il rito dell’esumazione

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Oggi parlerò di come faccio un’esumazione.

Di come la faccio io intendo.

Sicuramente ci saranno metodi migliori; a me hanno insegnato questo. Ne scriverò mantenendo le premesse con cui ho sempre tenuto questo blog: rispettare chi non c’è più.

E’ esattamente il presupposto necessario per effettuare questo tipo di operazioni. In fin dei conti abbiamo davanti delle persone che stanno a guardare noi, che mettiamo i resti di un loro caro estinto, dentro una scatola di ferro.

Se capitasse a me vorrei massimo rispetto.

Inizierò a raccontare da quando la cassa è tornata alla luce, dopo il lavoro dell’escavatore e della pala come ho spiegato in questo post.

Appena il coperchio è libero dalla terra cerco di sollevarlo a mano, solitamente si apre senza problemi. In caso contrario faccio leva con qualche attrezzo.

Comincio a ripulire la superficie superiore della cassa da eventuali infiltrazioni di terra.

Mi aiuto scalzando le estremità dell’imbottitura che avvolge la salma, così da far scorrere la terra all’esterno dell’involucro di stoffa. Se questo non basta viene in aiuto il velo in raso, che di solito ricopre il corpo nella sua lunghezza. In assenza di questi tessuti, devo liberare il corpo con i guanti o con una mestola, tipo come fanno gli archeologi quando trovano un reperto.

Dopo aver liberato l’area di lavoro, avvicino la cassetta di zinco che accoglierà i resti.

Solo la testa e le mani sono esposte, il resto è dentro le logori vesti che dopo tanti anni hanno assunto l’aspetto di un sudario.

Per prima cosa cerco le ossa delle mani. Sono le parti più piccole. Mentre i piedi sono raccolti nelle scarpe o nelle calze, gli arti superiori possono spargersi, rendendo più lungo il loro recupero specie se nella cassa c’è del fango. Tolgo anche l’ulna e il radio dalle maniche.

Ripartendo dall’alto ripongo il cranio, che è la parte più ingombrante; insieme ad altre ossa più lunghe vanno posizionate in modo che lo spazio nella cassetta sia sufficiente ad accogliere tutto.

Passo alle vertebre cervicali che sistemo in basso, dietro al cranio; quindi le clavicole, l’omero, le costole, lo sterno (che talvolta è quasi totalmente consumato) e concludo togliendo le vertebre rimanenti.

Proseguo con le ossa del bacino, che cerco di mettere ai lati lunghi della cassetta per lasciare spazio alle successive sei ossa: femore, tibia e perone. E’ per quelle che bisogna gestire lo spazio; si rischia di non riuscire a chiudere il coperchio e dover risistemare l’interno. Una cosa che di certo i familiari non gradiscono.

Infine raccolgo le rotule.

Il recupero delle ossa dei piedi è quasi sempre agevole. Come già detto sono all’interno di calzature e quindi basta svolgere il tessuto all’interno dell’ossarietto di zinco.

La velocità di queste operazioni dipende dal tipo di abito indossato dalla salma. Abbiamo a che fare con pantaloni o calze di nylon (talvolta indistruttibili!), camicie e giacche, mantelli o scialli, intimo di ogni genere che mantiene la sua resistenza anche dopo tanti anni.

Una curiosità.

Se al momento di togliere il coperchio i familiari vedono il cranio consumato, tirano un respiro di sollievo e cominciano a esprimere consensi sulla buona sorte occorsa al loro defunto: danno per scontato che il processo di decomposizione sia completo.

In realtà potrebbe non essere così. Molto spesso ci sono porzioni di corpo non consumate. Parti come il busto e il bacino necessitano di più tempo per mineralizzarsi. Capita anche che ci siano uno più arti mummificati e quindi non è possibile effettuare la riduzione.

E’ importante smorzare gli animi fin da subito e prendersi il tempo necessario per accertarsi che il lavoro sia possibile da fare per evitare successive delusioni.