Il carro funebre percorre l’ultimo tratto a passo d’uomo.
Piove che il vetro non riesce a stare pulito.
Quando entriamo nella piccola piazza dirompe un tuono insistente, profondo che sembra un brutto effetto speciale, di quelli fatti con latta e martello, di quelli che scoccano d’estate quando non t’aspetti un tuono d’agosto, oppure è il cielo che ha cominciato ad accartocciarsi.
È surreale questa immagine del corteo di auto ferme da cui non scende nessuno.
Piove troppo.
In questo tempo guardo fuori: sembra di essere dentro una di quelle palle di vetro piene d’acqua.
Su un lato e dietro sfilano palazzi. Sono alti uguali e così normali da sembrare disegnati con il canone di un bimbo: rettangoli alti tre piani, facciate dipinte con tenui colori primari, persiane identiche, quasi tutte chiuse, senza cornici o balze intorno; anche i portoni si assomigliano, cambia solo la forma del battente. Una vecchia insegna scolorita dice Carni.
Dall’angolo che nasconde l’uscita della piazza, gira un vecchio cilindro verticale a strisce bianche e rosse, mi pare ci sia scritto Barba in mezzo.
Adesso pioviggina, scendiamo di corsa perché potrebbe ricominciare.
Sull’altro lato della piazza regna un vecchio palazzo con colonne, e merli sulle due torrette; alle nostre spalle l’unico scorcio sul mondo ci mostra, in un angolo, un orizzonte coperto da alberi alti e spogli, così fitti da nascondere le colline.
Resta quello che abbiamo davanti: la grande chiesa, così alta che non basta tirare la testa indietro per guardarla tutta; quando abbasso il capo ho come una vertigine: il duomo sembra capovolgersi nella pozza che ristagna lungo la strada; mi ci vedo appena specchiato, mentre balzo in avanti per non inzaccherarmi.
Apriamo la grande porta, sistemiamo i fiori all’altare.
Mentre usciamo la pioggia è aumentata ma ormai i familiari sono dentro e dobbiamo procedere.
Tiriamo fuori il feretro, si bagna, ci voltiamo verso l’ingresso, ci guardiamo negli occhi e al cenno di uno alziamo tutti insieme per fare la spallata.
Il corridoio disegnato tra le panche è lungo.
Poggiamo la cassa sul carrello davanti all’altare, usciamo.
C’è tensione qua fuori.
Dice che la figlia del defunto, alla fine della messa, avrebbe voluto mettere una canzone per salutare il padre.
Sembra che il sacerdote non abbia accettato, che sia a causa del pezzo, non lo riteneva idoneo.
Le persone che stanno fuori sotto al loggiato sono tutte a favore della donna, qualcuno apre le braccia guardando al cielo. Sembra allora che leggerà una lettera.
Quando la messa sta per finire entriamo, ci avviciniamo all’altare seguendo i larghi corridoi laterali rimanendo defilati.
Appena il sacerdote manda in pace i presenti la figlia si alza, raggiunge il leggio e svolge un piccolo foglio.
Le sue parole escono straziate dal dolore; verso la fine della lettura si calma, saluta, ringrazia. Richiude il foglio e resta in piedi sul posto.
Da una delle prime file un ragazzo alza un amplificatore portatile, si diffonde una melodia, sempre più forte.
La donna guarda in alto a occhi chiusi: – Questa è la tua canzone, tua e di mamma.
È Ciao amore di Tenco.
Mi si ferma il respiro, rimbalza qua nel mezzo, tutti i cuori sembrano perdere un battito, faccio mio un angolo buio, chiudo gli occhi. E ascolto.
Il prete è ancora fermo al pulpito, lo sguardo diviso da piccoli guizzi tra la ragazza e l’amico con la cassa, chiude gli occhi, abbassa la testa, la tentenna.
Poi scende due scalini di legno che rimbombano i suoi passi.
Si sofferma alle spalle della donna, le carezza una guancia pizzicandola piano, con la tenerezza e il rimprovero che gli competono.
Giurerei di averlo visto sorridere, ma per adesso non ho lo sguardo affidabile.