Siamo gli unici così eleganti.
Anzi no, c’è un signore che va in giro, senza meta. Sembra uscito da un libro dell’800 vittoriano.
Il personale ci vede passare e sorride, mentre gli anziani guardano cupi per poi tornare alle loro attività; qualcuno ci chiede se andiamo a un matrimonio e ride, cinico.
Passiamo velocemente dalla grande porta del refettorio, per non turbare la loro giornata.
Arriva una zaffata di pipì e disinfettante.
La direttrice ha già tutti i documenti: possiamo procedere alla chiusura del feretro.
Saliamo le scale ricoperte di moquette rossa, fissata a terra da piccoli tubicini dorati. Qualcuno manca e il tessuto si è sollevato. Picchio sulla spalla del collega che mi sta davanti, glielo indico con un gesto del mento. Lui capisce.
Quando scendiamo, dovremo stare attenti a non inciampare.
La piccola stanza adibita a commiato è completamente bianca: ha un crocifisso di metallo invecchiato, o vecchio per davvero, una fila di sedie azzurre e un tavolino bianco.
Ci appoggio la valigetta.
L’impresario parla coi familiari: ci aspetteranno in chiesa.
Appena se ne vanno si avvicina uno degli ospiti e si guarda attorno come se fosse in incognito.
Entrando si prende due lembi della camicia, ci guarda e affranto li tira, come a scusarsi per non essere abbastanza elegante.
Allunga un braccio indicando la cassa.
– Sono il suo migliore amico – Ci dice – Non posso venire al funerale.
La parola si conclude soffocata da un singhiozzo.
Ci guarda languido – Lui capirà: a me in chiesa mi ci hanno visto solo per il battesimo.
Dice che da quando si sono conosciuti, lì dentro, si sono fatti forza, che erano due campioni di briscola e che insieme sono riusciti a trascorrere delle giornate quasi normali.
Lo indica di nuovo.
– Due anni fa mi aveva anche invitato a casa sua per Natale, il figlio aveva accettato ma… – Ride e piange insieme, prende un fazzoletto e si asciuga – Gli ho pisciato sulla sedia, e allora per Pasqua dovette inventarsi una scusa… ma io lo capisco.
Controlla che non arrivi nessuno dal corridoio, prende un mazzo di carte dai pantaloni e lo mette nella cassa.
– Non lo dite all’inserviente, che sennò si arrabbia: qui i mazzi sono contati.
Gli facciamo un gesto di complicità, lui ricambia con una strizzata d’occhio che gli piega il viso fino al collo e se ne va sorridente.
Chiudiamo e portiamo fuori il feretro.
Ritroviamo il migliore amico appena fuori dall’uscio; mette la mano sul legno come se fosse la spalla del compare.
– Eh, adesso soltanto i solitari mi toccherà fare, qui non ci capisce niente nessuno di carte –
Ci guarda.
– Io in chiesa non c’entro neanche morto: lui capirà.
Non ammette neppure a sé stesso che non potrebbe portarcelo nessuno in chiesa, senza permesso.
Se ne va e sorridendo, mastica tra i baffi una bestemmia.