Da mezz’ora ha gli occhi fissi sul feretro.
Non sono nemmeno sicuro se guarda ancora il volto del marito oppure le passa davanti una storia che nessuno può vedere.
In questo tempo ho rubato con sguardo discreto pezzi di persone che sono passate per un saluto: le loro espressioni, la direzione degli sguardi che guizzano rivolti con reverenza e timore all’interno di quell’involucro di legno, un segno della croce, una mano sulla spalla.
Però adesso lei è da sola.
Non fisso il dolore, distolgo lo sguardo.
Allora mi trovo a scrutare oltre la grande finestra dell’obitorio, quella con la pellicola a specchio. Mi protegge e rassicura che nessuno possa vederci dall’esterno; invece da qui si vede fuori in un bianco, nero e seppia artificiale, come quando si fissa l’eclisse da un vetro affumicato.
Avevo lasciato il cielo limpido, adesso ci sono nubi striate gonfie di pioggia, vedo tutto scuro.
Non so se è davvero così oppure è l’effetto della pellicola che mi confonde.
Le guardo le mani, tiene il bordo della cassa.
Il nome di quel feretro è Larice Cordato.
La cornice su cui poggerà il coperchio è sagomata come quelle grosse corde di porpora che delimitano la fila nei luoghi pubblici, o come quelle che legano le pesanti tende di certe chiese.
Una corda a cui lei sembra aggrapparsi per non lasciare andare la parte più importante del suo mondo.
Ma si è fatta l’ora, si deve fare la chiusura.
Le tocco una spalla, mi guarda come si svegliasse adesso, senza cambiare espressione; ci facciamo due gesti senza bisogno di parlare, si bacia le dita e le poggia sulla fronte del suo uomo.
Sento un attimo il brivido di quel freddo che è la morte.
Si volta e mi passa a fianco; non versa una lacrima, non batte un ciglio, come se avesse esaurito ogni sentimento umano.
Come se non sentisse niente.
Poi mi sento sciocco.
Ma come faccio io a sapere cosa prova una persona in questo momento, se basta una pellicola scura a confondere il tempo.