La Fondazione.

Ho preparato tutto per la muratura del loculo, aspetto solo che arrivi il corteo funebre.

Sento la voce del sacerdote: si stanno avvicinando.

Mi affaccio dal cancello del cimitero e dopo poco spunta per primo il sacrestano con in mano la lunga croce dorata, lui non se ne accorge ma la piega a seconda di come curva la strada, come fosse una freccia direzionale; poi il corteo delle signore divise in due file, il prete è sul carro.

Dal finestrino l’autista mi passa i documenti e il cartello provvisorio col nome del defunto: leggo che ha da poco passato il mezzo secolo.

Gli faccio cenno dove fermarsi.

Passano dieci minuti.

Adesso la cassa è nel loculo.

Prima che possa chiedere il permesso di procedere si avvicina una giovane donna, la figlia, mi domanda qualche minuto ancora.

Non c’è problema.

Prende dalla borsa un libro, non faccio in tempo a leggere il titolo; mette una mano sul legno e con sicurezza solenne legge un passo.

Lo chiude e mi guarda: – Può metterlo sopra il feretro?

– Lo vuol fare lei? – Mi fissa un istante poi tentenna la testa, si alza sulle punte e compie il rito.

Faccio in tempo a vedere che è di Asimov, uno dei volumi della Fondazione: l’ho letto da ragazzo.

Poi alza la testa, guarda per qualche istante ancora la cassa.

Parla per l’ultima volta, smorzata da un singhiozzo involontario prima di restare in silenzio e lo fa con un filo di voce appena.

Sto in questa posizione privilegiata nel bel mezzo di un crocevia fatto di addii, una posizione in cui si odono anche i bisbigli. Non sono davvero sicuro di cosa abbia detto, ma giurerei che dalle sue labbra sia uscito: Papà, che la forza sia con te.

Credo che gli addii abbiamo lunghezza differente, una lunghezza senza limiti.

Ma ci sono gesti, li vedo, ormai li so riconoscere, che sono serrature che lasciano fuori il dolore per far entrare l’accettazione, il ricordo.

Gli istanti che mi servono per avvicinare gli attrezzi ronzano di pensieri rivolti alle mie figlie. Quante sono le cose che abbiamo in comune! Mi vedo per un istante là dentro, mi passano mille frasi che loro potrebbero usare per dirmi addio. E spero da qua, per chissà quando nel futuro, che loro non soffrano.

Poi scaccio questi pensieri come mosche estive, continuo come sempre, faccio finta di nulla, ripongo nel cassetto più lontano la consapevolezza e continuo il mio lavoro.

Si alza il muro tra la vita e la morte e sono io a costruirlo.

Io che odio le barriere alzo quelle più pesanti.

1,30.

Domenica mattina, presto.
C’è poca gente nel camposanto.
È la mia giornata libera.
O quasi.
Devo solo togliere un marmo per l’inserimento delle ceneri di domani: roba di mezz’ora.
Non ho nemmeno i vestiti da lavoro ma jeans, camicia e cappellino; le antinfortunistiche nuove sembrano scarpe da ginnastica.
Mentre raggiungo il magazzino mi passa davanti una signora che ha lo sguardo fisso a terra, la camminata lenta e dimessa. Non alza la testa, forse così vestito mi scambia per un visitatore.
Mi trasmette una scomoda tristezza.
Passo pochi minuti a prendere gli attrezzi poi cerco il marmo e comincio a smontarlo; con la coda dell’occhio vedo la stessa donna che entra in un’altra galleria.
Impugna un mazzolino di fiori.
Prima non l’aveva, sono sicuro.
È quello da un Euro e trenta.

Lo so perché in settimana un’anziana si lamentava che le rubano le piante. Era arrabbiata e non capiva perché sparisse sempre lo stesso vasetto, quello più piccino, quello da uno e trenta, quello che mi scuoteva davanti agli occhi come se fossi il ladro: – Mi è toccato comprarlo di nuovo – diceva – È proprio un dispetto, una vergogna – parlava adesso rivolta al loculo del suo caro – Come si fa a essere così cattivi – spizzicava i rami delle sue piante per allargarle – E non è successo solo a me.

Ho il cuore appesantito dal sospetto.
Fingo di fare altro e rimango nei paraggi, la signora si ferma davanti a un loculo.
Si segna, posa un bacio sulle dita, poi le appoggia in un punto che da qua non vedo.
Prendo una scopa per scusare il mio passaggio. Sta davanti a una nicchia senza marmo, la luce spenta, sul foglio provvisorio c’è la data del funerale: 2016, gennaio.
E non c’è il marmo.
Dopo tanto tempo è insolito.
La foto di un uomo la fissa sorridente.
Scuote un centrino fatto a uncinetto, prende uno straccio dalla borsa e spolvera la base grezza della muratura che fa briciole di continuo.
È come spazzare una spiaggia.
Sistema di nuovo la piccola stoffa rotonda, posa su quella il mazzolino.
– Buongiorno – le faccio.
Le esce una voce graffiata – Buongiorno.
Mi sorride stirando il solo labbro superiore, non muove altri muscoli del viso, mi guarda appena.
– Sono il custode, se ha bisogno di qualcosa mi trattengo ancora un po’.
Che diavolo le dico? Non sono mica bravo in queste cose. E se non è la ladra? E se quel mazzetto era già nella borsa? E se… Ma non ci credo neanch’io.
In questa frazione di tempo metto a fuoco la sua immagine: la borsa è scucita in più punti, il vestito strusciato e logoro, le carpe scolorite.
Una ladra?
Sembra più una persona che cerca di restare appesa con gli artigli alla realtà, con una dignità che non ha più voglia di dimostrare nemmeno a sé stessa.
– Sa – fingo di guardarmi attorno – Non lo dica in giro ma, il fioraio qua fuori getta sempre molti fiori: non sono mica appassiti, è che deve selezionare i migliori: gli parlo? – strizzo l’occhio – Tanto li butta via.
Esce una risata gutturale: – Come al panificio, il sacco di pane per le galline costa un Euro… ma io non ce l’ho mica le galline.
Esce ancora quella risata, esce quasi per forza, come se la strappasse dal fango, accompagna tutta la frase.
La saluto, rimango col dubbio: Avrà capito?
Appena girato l’angolo mi arriva da lontano l’ultimo graffio.
– Grazie!

Andata e ritorno.

Di domenica nei cimiteri ci sono visitatori diversi che nel resto della settimana.

Non ho molto da fare, mi sbrigo in un’ora.

Sento dei passetti che scalpicciano dietro di me.

– Scusa signore, quando torna la mia mamma?

Mi trovo davanti una valanga di treccine, fiocchi e scarpe fluorescenti. La bimba mi guarda seria. Ha in mano un sacchetto che sfrega per terra.

La segue in corsetta un uomo.

– Tesoro non disturbare, il signore sta lavorando – Mi si rivolge – Scusi!

– Ma papà, lui lo sa di certo quando torna la mamma, lavora qui dentro!

L’uomo si accuccia, la prende per le spalle.

– Tesoro: nessuno può sapere quando torna la mamma – Lei imbronciata guarda per terra, lui mi stringe gli occhi crucciato e torna a parlarle – Dillo a questo signore: la nostra mamma è una dottoressa così brava, che l’hanno chiamata i più grandi scienziati del mondo per curare i bambini poveri che soffrono.

– Sì, però anch’io sono stata male e a me non mi ha curato.

– Lo sai, topina, la mamma è tanto lontana che non funzionano nemmeno i telefoni, altrimenti sarebbe venuta subito da te.

Io vorrei sparire.

– Signore, tanto se torna la vedi di sicuro, vieni – Mi porge la manina. Io guardo il padre in cerca di conforto, lui lo spera in me.

Mi porta davanti alla tomba di una giovane donna, è qui da qualche mese ma non ricordo nessuno di loro, forse non ho ricevuto io il funerale.

– Vedi, quando la riportano atterra qui, dove c’è la foto – Indica sorridente l’immagine.

Mi accuccio e cerco di tenere una parte credibile.

– Quanti anni hai signorina?

Mi porge una mano aperta, con l’altra si piega il mignolo di quella.

Le strizzo un occhio: – Quel mignolino vale metà, giusto? Hai quattro anni e mezzo!

Lei sorride e tentenna felice le sue treccine.

– Ascoltami bene: io sono sempre qui, ti prometto che se torna ti chiamo subito!

– Devi telefonare a papà, ma lo sai il numero?

– Certo! Ho il numero di tutti quelli che devono tornare.

– Ma te stai sempre qui? C’hai il letto per dormire?

– Eh sì, se qualcuno arriva di notte come si fa?

Mi guarda storta per tre secondi eterni.

– Ma te l’hai visto qualcuno che è tornato?

Guardo l’uomo, lui strizza le labbra e fa sì con la testa. Sto al gioco.

– Vedi quel posto là? – Indico il campo che abbiamo esumato di recente – Quelli sono già tornati.

La bimba resta a guardare qualche istante in quel punto, si volta e mi fissa:

– E se torna di notte? – Mi indica la lampadina sulla croce – Questa lucina è piccina e forse non la vede.

Lui la prende per mano: – Tesoro basta, dobbiamo andare.

Gli sorrido, ormai siamo in ballo e si balla fino in fondo: – Aspettate qui.

C’è un angolo in cui la gente accumula piccoli accessori che non usa più, talvolta funzionano ancora e gli altri visitatori attingono da lì. Prima ho visto una cosa.

Torno dalla bimba impugnando un lumino a batteria dalla luce rossa.

– Ecco qua – Lo poggio sulla tomba – Se torna sarà incuriosita da questa luce diversa dalle altre e saprà dove atterrare.

Lei sorride tutta contenta: – Bellaaaa! Papà, mettiamola anche a casa.

Ridiamo entrambi, lei ci osserva con uno sguardo severo, che noi maschi non capiamo mai niente.

Ci salutiamo.

Mentre mi allontano sento lei: – Papà, ma se diventiamo poveri anche noi, la mamma ce la rimandano?

Adesso sono spossato. Rimetto a posto gli attrezzi, chiudo le mie stanzine e mi avvio verso il cancello.

I due sono andati via. Butto un occhio sulla tomba della donna e scopro cosa aveva la bimba nel sacchetto. Attaccato alla croce c’è un foglio argentato con un cuore rosso e qualcosa scritto in maniera grossolana, che non ho voglia di leggere.

Esco con la gola annodata che si scioglie solo quando accendo la radio e inizio a cantare a squarciagola.

La cremazione.

Mentre sistemo la stanza degli attrezzi si avvicinano un uomo e una donna.
La tomba del loro caro è a pochi metri.
Cambiano i fiori, puliscono il marmo.
Gli passo accanto salutandoli.
– Avete finito con le esumazioni? – mi fa lui.
– Si continua la prossima settimana.
– Erano consumati? – chiede lei
– Beh, ce n’erano parecchi che abbiamo seppellito di nuovo.
Lei guarda il marito, come a imbeccarlo, lui ricorda la battuta – E cremati? Quanti ne hanno cremati?
Una signora piuttosto anziana lì vicino smette di fare le sue cose e comincia a fissarci.
– Qualcuno – rispondo distratto.
– Ma… – L’uomo indica col mento la tomba del suo caro – Lui quando lo esumate?
– Probabilmente l’anno prossimo, sarete avvisati dall’ufficio quando…
– Non voleva essere cremato da vivo. – m’interrompe la signora – Figuriamoci se lo faccio cremare da morto.
– Tesoro è l’anno prossimo, potrebbe essere pronto.
– Per allora voglio essere convinta – fa lei stizzita.
Il marito mi fissa sgranando gli occhi – Crede sia immorale farsi cremare.
Affronto spesso questi temi, molti sembrano aspettarsi una redenzione dalla nostra risposta, così cerco di stare sul vago per non ferire nessuno.
– Ognuno deve sentirsi in pace per la propria decisione, qualunque sia. Vivere coi rimorsi verso chi non c’è più è la cosa peggiore; sapete – mi tolgo i guanti per fare qualcosa – la maggior parte dei necrofori che conosco vuole essere cremato quando sarà il momento. Ne vediamo così tante, che vogliamo risparmiare l’esperienza dell’esumazione alle nostre famiglie. Non è un fatto etico.
– Lo vedi? – Fa lei smanacciando nel vuoto verso il marito – Io non voglio avere rimorsi.
Lui la prende dolcemente per i fianchi – Per me tu sei tutta grulla! – Si volta e mi saluta.
Lei borbotta finché non escono dal cancello.
 
L’anziana signora adesso si avvicina.
Osserva la coppia uscire poi mi si rivolge.
– Io sono contraria, sa, a farmi bruciare.
La sua pelle intagliata dal tempo fa da cornice a due occhi celesti e guizzanti.
– Sa perché non ho conosciuto mio fratello?
Sto zitto e immobile mentre lei mi fissa tentennando la testa per me.
– L’hanno cremato nel 1943 – i suoi occhi si fanno piccoli – A quelli come me non si può parlare di cremazione, ha capito cosa intendo, vero?
La osservo allontanarsi a piccoli passi.
Mi cade un guanto.
Ho capito.
.

N.M.

Il piccolo coperchio bianco è sbucato all’improvviso.
Il collega ha pettinato la terra centimetro dopo centimetro, dalla ruspa ha visto sfogliarsi la vernice e si è fermato. – Te la senti? – Mi fa.
Non lo guardo neppure: come faccio a dirgli di no?
Entro nella fossa, sistemo la tuta bianca e m’inginocchio.
Scavo con la mestola come quando da bambino giocavo sulla spiaggia.
Quando la terra è smossa la separo dal piccolo coperchio con i guanti.
M’immagino una storia impossibile per occupare i pensieri: a una vita mai vissuta devo almeno un sogno.

N.M. è nato una mattina presto che il sole stava sorgendo appena.
C’era tutta la famiglia.
Iniziò a camminare presto. All’asilo era tranquillo, ogni tanto bisticciava con un bimbo per difendere una compagna.
A calcio non era bravo, così fece rugby. Riuscì a giocare come professionista per alcuni anni, poi si sposò e cominciò a lavorare nell’azienda del padre.
Ebbe due figli, invecchiò con sua moglie e riuscì a godersi i nipoti.

Invece la sua storia è tutta sotto di me.
Ci metto un sacco di tempo, o così mi pare, prima di aprire.
C’è silenzio intorno. Ci sono cinque persone, ma stanno tutte trattenendo il fiato.
Apro.
Prendo la scatolina di zinco e ripongo le cose che trovo lì dentro.
Sono due.
L’elefantino colorato lo metto per secondo.
Guardo la madre, mi fa sì col capo.
Mi alzo.
Esco dalla fossa.
I genitori vogliono vedere.
Un mio collega cerca di fargli cambiare idea ma loro aspettano questo momento da ventiquattro anni: – Siamo pronti – dice lui.
Gli porgo la cassettina.
Io fisso l’elefantino colorato che gli ha tenuto compagnia per tutto questo tempo.
Loro no.
Alzo gli occhi e incontro quelli di lui.
Adesso non possiamo più abbassare lo sguardo, stupidi maschi orgogliosi.
È lei a rompere il ghiaccio: – Posso portare io la scatola fino all’ossario?
Guardo il mio collega anziano, ci mette tre secondi a decidere.
Va a prendere un paio di guanti nuovi, quelli grandi.
– Si metta questi – Le dice.
Ci incolonniamo dietro la sua dignità.
Quando arriviamo ci affida la scatolina. Prendo il pennarello nero.
Cerco di mantenere una buona calligrafia.
Sul tappo scrivo il nome, il cognome e una sola data, insieme alla sigla N.M.
Non sono le sue iniziali,
È l’aria frizzante di quella mattina che non ha potuto respirare, della storia che non ha potuto vivere.
N.M. è una sigla che non si scrive mai per intero.
Neanche adesso.

 

Il morto.

Tempo fa ho scritto uno stornello in rima e non avevo mai pensato di inserirlo in questo blog. L’ultima strofa è un omaggio al grande narratore di storie Tiziano Sclavi.

Il Morto

Il morto stecchito

Il morto schiacciato

Il morto sparito

Il morto trovato.

Il morto che incanta

Il morto al salterio

Il morto per finta

Il morto sul serio.

E l’uomo che veste il morto: “m’inventro…”

Lo muove e lo sposta con mille cure

Guarda un involucro “…e chi c’era dentro…”

Si chiede “…dov’è che è andato a finire?”.

Il morto per caso

Il morto ammazzato

Il morto appeso

Il decapitato.

Il morto da poco

Il morto che tarda

Il morto per gioco

Il morto che parla.

Per chi all’obitorio il morto giace,

Ci son meccanismi da sempre in uso

Riceve fiori, cordoglio, una prece,

Finché giunta l’ora non viene chiuso.

Il morto normale

Il morto che … insomma

È rimasto uguale

Sembra che dorma.

Il morto da tempo

Quello di giornata

Il morto “è uno scempio!”

Il morto a chiamata.

E le Parche giudici mai considerate

Tendon sul tuo capo la lama di rasoio

E svolgi le matasse con giornate avolterate

Finché Atropo ti taglia dal suo filatoio.

Il morto per sbaglio

Il morto per scelta

Il morto a serraglio

Il morto alla svelta.

Il morto nel sonno

Il morto cremato

Il morto in autunno

Quello bendato.

E a guardar tutti seduta e arcigna

La morte che gufa, la morte che ghigna.

Il sorriso.

Stiamo aspettando nel corridoio dell’obitorio l’ora per iniziare la chiusura.
Fisso i lastroni quadrati del pavimento; ascolto i rumori e le voci che animano le stanze.
Ad un tratto escono una bimba e un uomo, camminano a fianco, lei lo avvolge con le braccia e lo guarda come solo i bimbi sanno guardare i grandi, cercando un pezzo di futuro.
– Però è bello vedere il nonno che sorride… – si volta e guarda avanti a sé i maledetti lastroni – … anche se è morto.
Si volta tutta rossa e affonda il viso nel giubbotto dell’uomo.
Adesso i miei lastroni si muovono.

Una figura bianca.

Ieri, dopo quattro giorni di lavori, abbiamo finito di esumare un settore di posti a terra.
Sai che prima di andartene dovrai pulire a fondo, per non lasciare il cimitero come una trincea.
Chi resta scopa i vialetti, rastrella la ghiaia e chiude il cancello.
Non mi ha mai spaventato restare da solo nel camposanto, nemmeno dopo il tramonto.
Sto finendo di rastrellare quando dietro di me vedo scorrere veloce una figura bianca.
Ma sono solo…
Mica mi preoccupo, sarà stata un’impressione, oppure ho qualcosa nell’occhio: è volata polvere tutto il giorno.
Continuo a spostare sassolini.
Dal campanile vicino i battenti mi avvisano che sono le sei.
Dietro di me sfila di nuovo la figura bianca.
Mi volto e non c’è niente.
Mi guardo intorno, perché secondo me deve esserci qualcosa che il vento sta spostando qua e là.
Nulla. Nulla che sia bianco e che possa essere spostato con una ventata.
Mentre cerco di finire mi faccio più guardingo e tengo lo sguardo spinto all’indietro.
Ad un tratto ricompare!
Mi volto e sembra seguirmi…
E insomma, era il cappuccio della tuta.

L’ultimo ballo.

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Maria si affaccia alla finestra.

Lo fa ogni volta che passa di lì: scosta la tenda e sbircia per strada.

Sul muro di fronte ci sono i buchi dei proiettili dell’altro ieri, mentre il sangue è stato lavato oggi dal marciapiede.

Ogni volta si ferma, appena, e guarda fuori.

Nella piazza polverosa sono abbandonati giocattoli silenziosi: tappi, rocchetti e fucili di legno. Di bambini per strada durante la guerra non c’è segno; o sono al fronte o stanno nascosti.

Sopra le case Maria vede il cielo: è blu e rosso, striato di viola; come quella volta alla fiera di paese, quando lui le chiese di ballare; sua madre si accigliò e lei, senza nemmeno rispondergli, tornò a sedersi fissando per terra tutto il tempo.

Il suo mondo è fatto di attese: per la pace che arriva, sembra, da sud; per il papà lontano che ricorda appena e per qualcuno che non si può sapere, perché alla sua età non sta bene.

A volte lascia appesa la tenda alla maniglia, così se ha fretta lancia un’occhiata; gliene basta metà, anche solo per vedere una bici che passa.

Tra la camera e la cucina scosta la tenda di quella finestra per sbirciare, di nuovo, prima che sia sera. Un asino porta due giare, mentre un cane abbaia girandogli intorno e il contadino saluta qualcuno che lei non vede.

Prima di andare a dormire sposta la tenda bianca per l’ultima volta, stasera. Appoggia la fronte sul vetro ghiaccio e tentennando piano la testa guarda le stelle, esprimendo un desiderio. Sospira, la condensa le vela il panorama; con l’indice disegna un’iniziale, ma la cancella subito prima che qualcuno la veda.

Un suono improvviso le strappa le orecchie. Un uomo grida più forte della sirena. Poi un sibilo, si sente appena. Due comari nella piazza guardano per aria e indicano.

Maria alza la testa e la vede e la sente, un attimo prima che una scheggia la raggiunga.

Oggi Maria ha lasciato il loculo dove ha riposato per oltre settant’anni, per entrare in una scatola di zinco.

Mi sembra di vederla, ad ascoltare vecchie canzoni e far finta di danzare col suo amore.

Le prendo la mano guantata di pizzo bianco, la sollevo per l’ulna e il radio e mi regalo l’illusione di accompagnarla nel suo ultimo ballo.

San Valentino.

Red rose isolated  on the white background

Oggi è una bella giornata per essere febbraio.
Il quattordici febbraio.

La porta del cimitero è un cancello mezzo arrugginito che si può aprire semplicemente abbassando la maniglia, come quello di casa. Spalanco l’unica anta e la fermo con una pietra.
Questo piccolo camposanto è sempre nel mio cuore.
C’è una tomba molto particolare, ne ho parlato tempo fa, sul blog, e prima di aggiungere qualcosa di nuovo, ripropongo qui sotto.
Tra i marmi colorati, le scritte metalliche dei nomi, i fiori e le immagini sorridenti, risalta una croce di legno sbiadita, infilata in un cumulo di terra spoglia.
Non è soltanto per la sua semplicità che si fa notare, che talvolta è una necessità o una scelta.
È per il suo abbandono.
Ogni volta che capito lì, su quella tomba c’è solo un fiore.
Sempre un fiore.
Alcune signore, assidue frequentatrici, pensano a togliere le erbacce e mi hanno raccontato quel poco che sanno.
Il nome inciso sulla targhetta di alluminio dorato, fissata alla croce, non lo ricorda nessuno. Si dice fosse una donna sola al mondo che era nata in quel paese ma aveva trascorso la vita lontano. Quando fu sepolta l’accompagnava un uomo, un avvocato: il suo tutore.
Non un parente.
Sulla tomba rimase per alcune settimane un mazzo di fiori; le stesse signore lo gettarono perché era ormai rinsecchito.
Qualche giorno dopo sul cumulo di terra spiccava il bianco e verde di una calla. Semplice, recisa e posata lì. Sembra che ogni settimana quella calla venga sostituita da una fresca.
Nessuna delle signore, nessuno di noi ha mai visto anima viva fermarsi a quella tomba. Ma quel fiore viene rinnovato puntualmente da allora, come una promessa.
Nella mia testa prende forma una storia che ha il sapore di altre storie che ho sentito o letto.
Mi immagino una vita di stenti, forse di violenza, forse di costrizione in uno di quei manicomi in cui si finiva anche solo per soffrire di convulsioni. Vesto quella donna col volto di Alda Merini.
La immagino indistruttibile davanti alle avversità, ancorata alla realtà grazie ai sogni.
Immagino una foto in bianco e nero, un primo piano o una figura distesa, appena svestita, irriverente per i suoi tempi. Immagino una sigaretta accesa, fumata solo a metà.
Immagino un amore vissuto al limite, fuori dal tempo, osteggiato da una società meschina. Immagino appuntamenti tra le foglie cadute in un bosco, baci irresistibili, sospiri e paura.
Immagino momenti di solitudine, colmabili solo con ricordi e speranze, immagino abbandoni e prevaricazioni, sottomissioni e indifferenza.
E poi immagino un addio, perché una storia così può solo finire con un addio.
E immagino qualcuno, che ha amato come non si può immaginare, di un amore proibito e folle, che deve rimanere segreto e sconosciuto per sempre; lo immagino cogliere quel fiore che sicuramente lei amava, che di certo questo amore coltiva con le sue mani e lo immagino venire di buio, oppure la mattina presto, quando è certo che non ci sarà nessuno a vederlo.
È una storia a lieto fine, perché ogni volta che il fiore viene cambiato viene rinnovata una promessa, un ricordo e quella tomba diventa per me un monumento alla vita, alla libertà, all’amore.
Nonostante tutto.
Io, lo confesso, stamani sono venuto qua allungando il giro dei cestini, perché volevo vedere quella tomba, perché mi sento complice di questo amore misterioso, quasi il suo custode.
Dentro è deserto ma non entro neppure.
Apro i tre bidoni che stanno all’ingresso, tolgo i sacchi pieni e metto quelli nuovi senza guardare quello che sto facendo, ma fissando altrove, fissando quel cumulo di terra che rabberciamo da anni, ogni volta che piove forte, e mentre lo guardo non riesco a smettere di sorridere.
Sul cumulo c’è una rosa rossa.