Piccolo scrigno.

 

E’ da stamani che spero il tempo si fermi, che non mi faccia arrivare all’ora del funerale.

Ma quel tempo arriva quando meno me lo aspetto mentre facciamo altre cose.
Cammino verso il cancello principale quando mi accorgo che sono già entrati e stanno camminando verso la cappella.

È qui che mi accade che il sangue si fa ghiaccio e quel tempo bastardo si raggruma e rallenta la scena. Sembra che perdiamo un battito per passo quando li vedo. E non mi posso fermare, non lo posso fare.

Entra il prete a capo basso, dietro il padre.
Ce l’ha in braccio.
È piccola e bianca avorio e ha otto viti dorate e sta tutta in una stretta.
Una stretta che sembra normale.
Non alza mai la testa mentre il sacerdote fa la benedizione.
La madre di fianco le tiene sopra una mano.

Li accolgo zitto con un gesto, un invito ad avanzare, io li precedo i miei colleghi stanno dietro.

Abbiamo scavato per quel che basta.
La salutano.
La madre fa una carezza sul legno laccato.
Poi il padre incontra il mio sguardo. Il suo lo sognerò per notti senza dimenticarlo più.
Non diciamo una parola, non serve perché adesso lo sappiamo che succede.

Allunga le braccia e me la passa.
Mi si accartoccia la gola.
Una parte di me, la parte che può farlo è come se sparisse.
Adesso la tengo, pesa che sembra un velo.
Scendo come se la gravità non ci fosse, mi sento quasi appeso a un filo invisibile, lo so che deve andare tutto bene, a ogni costo.
E il mio salto riesce a non essere sgangherato ma uno scorrere delicato in un letto di terra antica.
Mi accuccio, la poggio, la metto dritta.
Guardo il padre.
Ha il capo reclinato e penso che adesso lasci scorrere dei ricordi solo immaginati.
Si tengono stretti mentre la lascio.
È un abbandono che pesa perché adesso tutto finisce.

Mentre mi allontano sento appeso un fardello che spero si strappi mentre lo vado a raccontare.

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