Quello che ci resta.

Nel cimitero sono morti anche i fiori adesso.
Non ci sono odori, o rumori.
Gli uccelli sono aumentati invece, hanno fatto i nidi, scendono bassi a cercare da mangiare. Gli passo accanto e nemmeno scappano più. Sembra che mi guardino con pietà.
Dal loggiato interno mi affaccio alla finestrella, per vedere se arriva il carro funebre.
Gli si apre, a lui, come si apre all’auto dei due familiari che possono entrare.
Ma c’è una donna invece.
Si tiene all’inferriata del cancellone e guarda dentro. Ci sta alcuni minuti, senza muoversi.
C’è ancora mentre faccio il giro.
Sulle prime non mi vede, poi alza la testa e non cambia espressione quando si volta a guardarmi.
Ci fissiamo per un istante, poi scuote la testa e se ne va. Non abbiamo il coraggio di dirci niente.
Da queste mascherine la voce esce diversa, esce fiacca.
Quando salutiamo i familiari non diciamo nemmeno più condoglianze, allarghiamo soltanto le braccia e anche loro scuotono la testa.
La rassegnazione.
Arriva il carro, passa l’auto, chiudiamo il cancello.
Sistemiamo la cassa. A volte qualcuno porta un fiore solo, colto in giardino.
Ci si guarda da dietro queste mascherine. Ci si guarda.
Non ci restano che gli occhi.
E le lacrime.
Non abbiamo che quello.

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