Tempo fa ho lavorato in un cimitero ebraico.
Non ci si può entrare a cuor leggero.
Le tombe lì dentro parlano.
L’atmosfera che si respira è austera e solenne, tutto è un simbolo, un richiamo alla storia, alla loro.
Forse è la consapevolezza che fa la differenza.
Ciò che risalta di più sono le tombe degli anziani, quelli che l’Olocausto l’hanno vissuto sulla propria pelle.
La maggior parte.
Non è aperto al pubblico, si deve suonare per entrare. Perché in passato quel luogo ha subito violazioni di ogni genere da parte dei vandali.
Ci si muove per i viali in punta di piedi, come per non disturbare il sonno eterno e quando incrociamo un familiare ci salutiamo con un gesto.
Le tombe sono perenni, ognuna ha la sua struttura ma i materiali usati sono gli stessi e così tutto assume un aspetto uniforme, come fosse un enorme monumento in continua mutazione.
Non c’è una lapide o una scultura che accenni a un bisogno di rivalsa oppure al rancore ma tutto è impostato a tramandare un messaggio di speranza, di pace, di memoria.
Durante la sepoltura i parenti si voltano verso Israele e intonano un canto o una preghiera; anche i defunti sono sepolti guardando in quella direzione.
Ma che tu sia un visitatore, un familiare o un operaio, c’è una tradizione che è importante da rispettare, a ogni costo.
Una sola.
Se osservi le tombe puoi notare che su ognuna ci sono dei sassolini.
Ce ne sono di colorati, di pietra oppure di vetro ma tutti hanno lo stesso significato. Bellissimo.
Ognuno di essi è un viaggio.
Ogni volta che un parente o un amico lontano passano per visitare una tomba, lasciano uno di quei sassi: è una testimonianza, un pellegrinaggio per tenere viva la memoria.
Ci sono tombe piene di piccole pietre e le hanno posate mani provenienti da tutto il mondo.
Non si possono rimuovere. Mai.
Perché servono per dire a chi arriverà dopo che è passato qualcuno: non importa chi, importa che.