Esumazioni a terra.
Fa un caldo terribile.
La stoffa del cappellino non riesce a tenere il sudore. La tesa protegge gli occhi dal riverbero del sole che sui marmi delle tombe è accecante come sulla neve.
Devo ridurre le ossa di una signora morta quindici anni fa.
Poso la scatola di zinco alla testa del feretro e comincio.
A un metro da me c’è il marito che parla, parla continuamente e di qualunque cosa ma non di quello che sto facendo.
Io e il collega rispondiamo tentennando il capo e sorridendo.
Dopo aver sistemato testa e spalle, apro il tessuto della giacca e provo una strana sensazione, un disagio, come se un elemento scombinasse la routine.
Non lo capisco subito ed è questo che mi frega.
C’è il reggiseno.
Alle defunte non lo mettono.
Ne ho mai trovato uno durante queste operazioni? Stupido! Come ho fatto a non capire?
Nell’istante di incertezza mi ritrovo in mano una sfera che sembra gelatina.
Mi nascondo dietro la mia tesa come un bambino dietro al pollice ma vorrei sparire.
– Eh sì, perché lei… – Da adesso il marito resta in silenzio.
Io continuo a mettere tutto nella cassettina. Tutto, perché tutto le apparteneva, la completava.
Non vedo subito la giovane donna che si sta avvicinando. Sento prima i passi leggeri che sgranano la ghiaia. Ci scambiamo due buongiorno, il suo di circostanza il mio di imbarazzo.
Mi rendo conto che sta piangendo quando chiede al padre: – È pronta?
L’operazione continua nel silenzio, interrotto dai singhiozzi di lei. Quando ho finito mi ringraziano e mi salutano; solo adesso alzo la testa per ricambiare.
Solo adesso vedo che la giovane donna indossa una bandana e non ha le sopracciglia.
Torno dietro la mia tesa.