Fiori d’acciaio

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Esumazioni a terra.

Fa un caldo terribile.
La stoffa del cappellino non riesce a tenere il sudore. La tesa protegge gli occhi dal riverbero del sole che sui marmi delle tombe è accecante come sulla neve.

Devo ridurre le ossa di una signora morta quindici anni fa.

Poso la scatola di zinco alla testa del feretro e comincio.

A un metro da me c’è il marito che parla, parla continuamente e di qualunque cosa ma non di quello che sto facendo.
Io e il collega rispondiamo tentennando il capo e sorridendo.

Dopo aver sistemato testa e spalle, apro il tessuto della giacca e provo una strana sensazione, un disagio, come se un elemento scombinasse la routine.
Non lo capisco subito ed è questo che mi frega.

C’è il reggiseno.

Alle defunte non lo mettono.
Ne ho mai trovato uno durante queste operazioni? Stupido! Come ho fatto a non capire?

Nell’istante di incertezza mi ritrovo in mano una sfera che sembra gelatina.

Mi nascondo dietro la mia tesa come un bambino dietro al pollice ma vorrei sparire.

– Eh sì, perché lei… – Da adesso il marito resta in silenzio.

Io continuo a mettere tutto nella cassettina. Tutto, perché tutto le apparteneva, la completava.

Non vedo subito la giovane donna che si sta avvicinando. Sento prima i passi leggeri che sgranano la ghiaia. Ci scambiamo due buongiorno, il suo di circostanza il mio di imbarazzo.

Mi rendo conto che sta piangendo quando chiede al padre: – È pronta?

L’operazione continua nel silenzio, interrotto dai singhiozzi di lei. Quando ho finito mi ringraziano e mi salutano; solo adesso alzo la testa per ricambiare.

Solo adesso vedo che la giovane donna indossa una bandana e non ha le sopracciglia.

Torno dietro la mia tesa.

 

Era bellissima

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Siamo impegnati nell’estumulazione di alcuni corpi dai loro loculi. E’ stata una giornata complicata perchè abbiamo trovato dei corpi mummificati. Di alcuni, i rispettivi familiari hanno deciso per il riseppellimento quinquennale; un paio hanno optato per la cremazione.

L’ultimo intervento del pomeriggio però è stato indimenticabile.

Abbiamo tolto il marmo. La donna che raffigura è lì dentro da oltre trent’anni. Appena smurati i mattoni che sigillano il loculo ci siamo trovati di fronte a un feretro praticamente intatto.

Solitamente sul legno attecchisce la muffa, oppure si sfoglia la vernice. Quella cassa invece, togliendo un po’ di opacizzazione dovuta forse all’umidità, sembrava nuova.

Inseriamo un vassoio d’acciaio facendolo scorrere lungo tutta la base del feretro, ci faciliterà l’estrazione. Notiamo che la cassa è sigillata da tre fasce di alluminio.

All’epoca della tumulazione era obbligatorio metterle per i defunti che arrivavano da fuori comune.

I familiari ci dicono che era morta in un ospedale fuori regione; è probabile che avesse anche ricevuto una iniezione di mantenimento. Ci guardiamo col mio collega: siamo quasi certi che troveremo un corpo non consumato. Nel qual caso dovremo seguire la procedura per seppellirla nella terra.

Togliamo il coperchio di legno, apriamo quello di zinco (nei loculi, nei sepolcreti e nelle tombe di famiglia è obbligatorio che il corpo sia prima deposto in un feretro sigillato di questo materiale). All’interno il corpo è avvolto in un telo di plastica.

Oggi esistono materiali biodegradabili, ma un tempo venivano usati teli di quel tipo per effettuare lunghi viaggi per evitare che ci fosse dispersione di eventuali liquidi.

Con mille precauzioni lo svolgo lentamente ma l’interno è asciutto.

Invece quella donna si è mantenuta intatta, ad eccezione di un pallore giallognolo della pelle.

E’ bellissima.

Non mi era mai capitato di trovare la “bellezza” dentro una cassa. In qualunque condizione si trovi un cadavere, il tempo lì dentro demolisce il suo aspetto.

Da sotto le palpebre si nota ancora il rigonfiamento dei bulbi oculari (un tessuto che si consuma velocemente), il naso è intero e ha addirittura le rughe sulle guance.

Per la prima volta ho provato la sensazione che quel corpo non fosse morto ma dormisse semplicemente e che da un momento all’altro potesse alzarsi e andarsene coi suoi piedi.

La figlia si affaccia. Appena vede sua madre i suoi occhi si gonfiano di lacrime. Si mette una mano davanti alla bocca, incredula.

– Oddio… è rimasta uguale!

Il mio nodo alla gola viene inghiottito, come le storie che ci raccontano le persone con cui ho a che fare in questi luoghi, che mi arricchiscono e danno un senso a questo lavoro.

Storie di vite

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I defunti ci parlano.

Spesso questa frase è riferita al suo significato soprannaturale, soprattutto nella fiction, al cinema o sui libri.

Nella realtà i defunti ci parlano davvero; un linguaggio muto, espresso dai loro familiari, che accompagnano l’addio del corpo di un loro congiunto, depositando qualcosa che ha significato molto in vita.

Questi oggetti tornano alla luce con i loro accompagnatori, dopo un viaggio che dura, a volte, decine di anni.

Un viaggio allucinante, immobile eppure mutevole, durante il quale accadono eventi chimici così sorprendenti, da essere paragonati solo a quelli che avvengono durante la nascita.

Gli oggetti assistono passivi a questi cambiamenti, cambiando a sua volta per le sostanze con cui vengono in contatto. E si muovono, a causa del corpo che si dissolve ma quando tornano alla luce raccontano una storia.

Al momento di un’esumazione questi oggetti sono il ponte che collega il presente al passato, ai momenti intimi che hanno rappresentato, alla quotidianità che hanno descritto.

E i familiari  si stupiscono della presenza di un cappello o un accendino, una bottiglietta o un libro, un disco o una coperta ripiegata sul petto; come se il tempo trascorso dalla chiusura di quel feretro, fosse una distanza reale, un viaggio fisico verso una destinazione identica, che può durare una vita intera e durante il quale un oggetto può anche essere smarrito.

E invece resta lì, fedele come un cane, puntuale e sorprendente a rammentare a cosa è servito, a cosa ha significato per quei resti, quando erano vivi.

Perchè alla fine, sia per i vivi che per i morti, l’unico viaggio reale è quello della memoria.

 

Questioni di decomposizione

Il segreto per una corretta decomposizione?

Non esiste, mi spiace.

Se a qualcuno è venuto in mente di curare il proprio corpo anche dopo il passaggio su questa terra, sono desolato, non ci sono rimedi efficaci.

Puoi fare fitness, yoga, vivere in poltrona, mangiare vegano o spolverare vassoi di salsicce… Quando finiamo lì sotto (là dentro, là fuori o in qualunque posto capiti di trovarsi), non è possibile assicurarsi di non fare brutte sorprese ai nostri parenti.

Ci sono due modi per stabilire le modalità di decomposizione di un corpo: lo studio teorico e l’atto pratico.

Dal primo scaturisce tutta quella letteratura scientifica che serve per stabilire con oggettiva esattezza gli stadi successivi dì decomposizione e alimenta discipline mediche, criminologiche e letterarie.
Il secondo non è una scienza esatta ma deriva dall’esperienza diretta di chi, per lavoro, ha a che fare con cadaveri che da anni giacciono in un feretro.

Io rappresento il secondo caso.

La mia sensazione è che nel disfacimento fisiologico di un corpo, sopraggiungano eventi soggettivi tali, da far insorgere tutta una serie di problematiche che portano a due situazioni opposte: la mummificazione dei tessuti, o la mineralizzazione precoce.

Una differenza alla fonte la fornisce il luogo dove viene deposto il feretro: nella terra o nel loculo.

Da quel momento tutto può succedere. Entrano in gioco fattori come l’umidità, le infiltrazioni d’acqua, il tipo di terra (più o meno ricca, dipende da quanto tempo accoglie spoglie mortali), resistenza o meno del coperchio del feretro alla spinta del terreno (se cede nascono tutta una serie di ipotesi), la presenza di alberi (che arricchiscono il terreno).

Per quel che riguarda la mia esperienza, in presenza di corpi non decomposti, nei loculi ci troviamo di fronte a tessuti asciutti, nella terra solitamente molli.

Ci sono le eccezioni.

Una delle precauzioni che un’impresa funebre prende sempre, è impedire che eventuali liquidi possano fuoriuscire dal feretro, prima che esso sia deposto. Nella seconda metà degli anni ’90 cominciarono a diffondersi dei materassini biodegradabili, che assicuravano una tenuta ottimale e che si scioglievano dopo qualche tempo, permettendo ai liquidi di fuoriuscire.

Prima di allora venivano utilizzati teli di plastica: avevano una grande resistenza ma giungevano intatti al momento dell’esumazione.

In questi casi tutto quello che un corpo produce viene trattenuto, impedendo il processo naturale di deterioramento biologico e creando casi sempre diversi.

Spesso i parenti dei defunti che non si sono consumati, raccontano che il loro caro aveva effettuato cure lunghe e pesanti. Talvolta ci sono medici tra i parenti, secondo i quali, sono i cibi pieni di conservanti che mangiamo a farci mantenere intatti.

Sono soltanto teorie.

Immagino basti che un liquido non ottemperi alla sua funzione e si modifichi il suo PH, per condizionare i successivi stadi di decomposizione.

Le variabili e le varianti sono così numerose da rendere impossibile ogni congettura su quale stato troveremo un corpo.

Non ci si abitua mai

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Mi è tornato in mente un servizio fatto alcuni mesi fa.

Era piena primavera.

Anche nei cimiteri entrano le stagioni. Le piante e i fiori hanno profumi vigorosi in quel periodo.

Quel giorno dovevamo aprire alcuni ossari i cui contratti erano scaduti da tempo. Sono quelle piccole tombe murate a parete destinate ad accogliere, in scatole di zinco, i resti ossei di esumazioni ed estumulazioni.

L’operazione è abbastanza veloce perché quei resti riposano lì dentro da almeno trent’anni, i contenitori sono logori e si aprono facilmente.

Arriviamo a togliere un marmo senza foto ma le due date iscritte in un font di acciaio invecchiato, sono tremendamente ravvicinate. Sappiamo già cosa troveremo.

Apriamo; incastrata tra le strette mura c’è una piccola bara bianca.

Quando vedi qualcosa del genere prima deglutisci, poi cerchi di scacciare i pensieri perche devi lavorare.

Aveva solo due mesi

Ma devi lavorare, non pensare che

Poco distante attendono la madre e la sorella di quel piccolo ricordo. Sono apparentemente calme e silenziose.

Quando metto a terra il feretro si avvicinano. Chiedo se vogliono assistere oppure aspettare più distanti.

Restano.

Intanto parlano e rammentano quel giorno lontano. Sollevo il coperchio di legno. Sotto c’è quello di zinco, ancora saldato.

È così piccolo.

Puoi averne viste tante in questo mestiere ma adesso sei in ginocchio davanti a un’ingiustizia e senti un nodo tremendo alla gola. È straziante ma devi dispensare sicurezza perché i familiari colgono ogni esitazione come un tradimento.

Sembrano i vestiti di una bambola.

– Gliel’ho fatto io, mentre la aspettavo – dice la mamma al vento.

Ma delle due donne è la sorella che si mostra più fragile. Inizia a singhiozzare e la madre le fa coraggio. Metto vicino alla piccola bara il nuovo contenitore di zinco che ospiterà quei resti per i prossimi 30 anni.

E’ posata su un giaciglio di paglia. Mi faccio coraggio ed entro nella piccola scatola con i grossi guanti di gomma. Cerco di afferrare tutto insieme perché voglio metterla così com’è nell’altro contenitore.

Appena concluso lo spostamento la sorella mi ferma e chiede se ho sentito qualcosa nei vestiti.

All’inizio non capisco, poi lei si spiega: vuole che mi accerti che i resti non siano completamente spariti.

Mi tocca farlo davvero.

Premo delicatamente.

Non devi pensare che…

I guanti hanno tre millimetri di spessore e sotto ne ho un paio più fini. Non sentirei nemmeno una martellata ma in quel momento mi sembra di non avere nemmeno la pelle.

Guardo la donna e faccio segno di assenso.

Adesso la sorella è rassicurata, mi ringrazia e si allontana. Chiudo il nuovo contenitore e lo dispongo nel loculo più grande, di proprietà della mamma.

– L’ho comprato per me, quando sarà il momento la voglio avere vicina – dice.

Tendo le labbra senza sorridere, saluto le due signore che rimangono a fissare i mattoni che piano piano chiuderanno quella finestra sul passato.

Non ci si abitua mai.