Quello che resta…

Il funerale è in ritardo, dicono che ci sia un sacco di gente.
Aspetto in silenzio all’ombra delle piante.
Una signora anziana mi gira intorno; bionda, molto magra, leggermente truccata, vestita di un nero elegante: dà l’impressione che non sia abituata ad agghindarsi e ciò rende il suo momento ancora più solenne.
Sta curva sulle spalle come sostenesse un peso.
Si avvicina abbozzando un sorriso.
– Fa caldo oggi… – rompe il ghiaccio – Questo Caronte è micidiale!
Il primo contatto si esaurisce con qualche frase di circostanza. Torna lontana, poi si avvicina di nuovo. Deve avere una voglia matta di sfogarsi.
– Sono venuta in auto, non me la sono sentita di seguire il corteo a piedi sotto un sole così.
Si sente in colpa.
– Il corteo è una formalità, si partecipa da qui – mi colpisco al petto – Si coprono tutte le distanze – Sorridiamo, ho l’impressione che i muscoli del suo volto si sciolgano.
Sembra sollevata.
– Era una maestra – dice – …Una collega.
– Ci sarà il paese intero – immagino a voce alta.
Trovato il contatto la confidenza entra a gamba tesa.
– Non so darmi pace – scuote la testa e tiene le braccia al grembo come cullasse il suo dolore – Che donna, che cervello: sapesse quanti libri leggeva!
Mi scopro a toccarmi la barba, lo faccio quando sono nervoso.
Lei continua.
– Ha insegnato a intere generazioni: forse anche a lei.
– Vengo da fuori, però capisco quanto siano forti queste figure in una piccola comunità.
– Sa – porta le dita davanti alla bocca – non riesco a darmi pace che tutto quello che lei era, sia andato perduto così!
Si accorge che la fisso.
– Non mi fraintenda – si scusa porgendo la mano tesa – non voglio dire che ci siano perdite accettabili, ma…
Rimaniamo zitti per un bel po’, sono io a interrompere il silenzio:
– Sembra che siamo destinati a ripartire sempre da zero – la guardo – Ecco perché il vostro lavoro è così importante, distribuite la vostra eredità a interi paesi.
Mi fa un sorriso che mi mette in pace col mondo, noto i bordi del rossetto che sono imperfetti, le sue spalle sembrano ora quasi dritte.
Si volta.
– C’è l’ombra adesso, quasi quasi seguo l’ultimo tratto.
Ci salutiamo che sembra un addio.

 

La Fondazione.

Ho preparato tutto per la muratura del loculo, aspetto solo che arrivi il corteo funebre.

Sento la voce del sacerdote: si stanno avvicinando.

Mi affaccio dal cancello del cimitero e dopo poco spunta per primo il sacrestano con in mano la lunga croce dorata, lui non se ne accorge ma la piega a seconda di come curva la strada, come fosse una freccia direzionale; poi il corteo delle signore divise in due file, il prete è sul carro.

Dal finestrino l’autista mi passa i documenti e il cartello provvisorio col nome del defunto: leggo che ha da poco passato il mezzo secolo.

Gli faccio cenno dove fermarsi.

Passano dieci minuti.

Adesso la cassa è nel loculo.

Prima che possa chiedere il permesso di procedere si avvicina una giovane donna, la figlia, mi domanda qualche minuto ancora.

Non c’è problema.

Prende dalla borsa un libro, non faccio in tempo a leggere il titolo; mette una mano sul legno e con sicurezza solenne legge un passo.

Lo chiude e mi guarda: – Può metterlo sopra il feretro?

– Lo vuol fare lei? – Mi fissa un istante poi tentenna la testa, si alza sulle punte e compie il rito.

Faccio in tempo a vedere che è di Asimov, uno dei volumi della Fondazione: l’ho letto da ragazzo.

Poi alza la testa, guarda per qualche istante ancora la cassa.

Parla per l’ultima volta, smorzata da un singhiozzo involontario prima di restare in silenzio e lo fa con un filo di voce appena.

Sto in questa posizione privilegiata nel bel mezzo di un crocevia fatto di addii, una posizione in cui si odono anche i bisbigli. Non sono davvero sicuro di cosa abbia detto, ma giurerei che dalle sue labbra sia uscito: Papà, che la forza sia con te.

Credo che gli addii abbiamo lunghezza differente, una lunghezza senza limiti.

Ma ci sono gesti, li vedo, ormai li so riconoscere, che sono serrature che lasciano fuori il dolore per far entrare l’accettazione, il ricordo.

Gli istanti che mi servono per avvicinare gli attrezzi ronzano di pensieri rivolti alle mie figlie. Quante sono le cose che abbiamo in comune! Mi vedo per un istante là dentro, mi passano mille frasi che loro potrebbero usare per dirmi addio. E spero da qua, per chissà quando nel futuro, che loro non soffrano.

Poi scaccio questi pensieri come mosche estive, continuo come sempre, faccio finta di nulla, ripongo nel cassetto più lontano la consapevolezza e continuo il mio lavoro.

Si alza il muro tra la vita e la morte e sono io a costruirlo.

Io che odio le barriere alzo quelle più pesanti.

Andata e ritorno.

Di domenica nei cimiteri ci sono visitatori diversi che nel resto della settimana.

Non ho molto da fare, mi sbrigo in un’ora.

Sento dei passetti che scalpicciano dietro di me.

– Scusa signore, quando torna la mia mamma?

Mi trovo davanti una valanga di treccine, fiocchi e scarpe fluorescenti. La bimba mi guarda seria. Ha in mano un sacchetto che sfrega per terra.

La segue in corsetta un uomo.

– Tesoro non disturbare, il signore sta lavorando – Mi si rivolge – Scusi!

– Ma papà, lui lo sa di certo quando torna la mamma, lavora qui dentro!

L’uomo si accuccia, la prende per le spalle.

– Tesoro: nessuno può sapere quando torna la mamma – Lei imbronciata guarda per terra, lui mi stringe gli occhi crucciato e torna a parlarle – Dillo a questo signore: la nostra mamma è una dottoressa così brava, che l’hanno chiamata i più grandi scienziati del mondo per curare i bambini poveri che soffrono.

– Sì, però anch’io sono stata male e a me non mi ha curato.

– Lo sai, topina, la mamma è tanto lontana che non funzionano nemmeno i telefoni, altrimenti sarebbe venuta subito da te.

Io vorrei sparire.

– Signore, tanto se torna la vedi di sicuro, vieni – Mi porge la manina. Io guardo il padre in cerca di conforto, lui lo spera in me.

Mi porta davanti alla tomba di una giovane donna, è qui da qualche mese ma non ricordo nessuno di loro, forse non ho ricevuto io il funerale.

– Vedi, quando la riportano atterra qui, dove c’è la foto – Indica sorridente l’immagine.

Mi accuccio e cerco di tenere una parte credibile.

– Quanti anni hai signorina?

Mi porge una mano aperta, con l’altra si piega il mignolo di quella.

Le strizzo un occhio: – Quel mignolino vale metà, giusto? Hai quattro anni e mezzo!

Lei sorride e tentenna felice le sue treccine.

– Ascoltami bene: io sono sempre qui, ti prometto che se torna ti chiamo subito!

– Devi telefonare a papà, ma lo sai il numero?

– Certo! Ho il numero di tutti quelli che devono tornare.

– Ma te stai sempre qui? C’hai il letto per dormire?

– Eh sì, se qualcuno arriva di notte come si fa?

Mi guarda storta per tre secondi eterni.

– Ma te l’hai visto qualcuno che è tornato?

Guardo l’uomo, lui strizza le labbra e fa sì con la testa. Sto al gioco.

– Vedi quel posto là? – Indico il campo che abbiamo esumato di recente – Quelli sono già tornati.

La bimba resta a guardare qualche istante in quel punto, si volta e mi fissa:

– E se torna di notte? – Mi indica la lampadina sulla croce – Questa lucina è piccina e forse non la vede.

Lui la prende per mano: – Tesoro basta, dobbiamo andare.

Gli sorrido, ormai siamo in ballo e si balla fino in fondo: – Aspettate qui.

C’è un angolo in cui la gente accumula piccoli accessori che non usa più, talvolta funzionano ancora e gli altri visitatori attingono da lì. Prima ho visto una cosa.

Torno dalla bimba impugnando un lumino a batteria dalla luce rossa.

– Ecco qua – Lo poggio sulla tomba – Se torna sarà incuriosita da questa luce diversa dalle altre e saprà dove atterrare.

Lei sorride tutta contenta: – Bellaaaa! Papà, mettiamola anche a casa.

Ridiamo entrambi, lei ci osserva con uno sguardo severo, che noi maschi non capiamo mai niente.

Ci salutiamo.

Mentre mi allontano sento lei: – Papà, ma se diventiamo poveri anche noi, la mamma ce la rimandano?

Adesso sono spossato. Rimetto a posto gli attrezzi, chiudo le mie stanzine e mi avvio verso il cancello.

I due sono andati via. Butto un occhio sulla tomba della donna e scopro cosa aveva la bimba nel sacchetto. Attaccato alla croce c’è un foglio argentato con un cuore rosso e qualcosa scritto in maniera grossolana, che non ho voglia di leggere.

Esco con la gola annodata che si scioglie solo quando accendo la radio e inizio a cantare a squarciagola.

N.M.

Il piccolo coperchio bianco è sbucato all’improvviso.
Il collega ha pettinato la terra centimetro dopo centimetro, dalla ruspa ha visto sfogliarsi la vernice e si è fermato. – Te la senti? – Mi fa.
Non lo guardo neppure: come faccio a dirgli di no?
Entro nella fossa, sistemo la tuta bianca e m’inginocchio.
Scavo con la mestola come quando da bambino giocavo sulla spiaggia.
Quando la terra è smossa la separo dal piccolo coperchio con i guanti.
M’immagino una storia impossibile per occupare i pensieri: a una vita mai vissuta devo almeno un sogno.

N.M. è nato una mattina presto che il sole stava sorgendo appena.
C’era tutta la famiglia.
Iniziò a camminare presto. All’asilo era tranquillo, ogni tanto bisticciava con un bimbo per difendere una compagna.
A calcio non era bravo, così fece rugby. Riuscì a giocare come professionista per alcuni anni, poi si sposò e cominciò a lavorare nell’azienda del padre.
Ebbe due figli, invecchiò con sua moglie e riuscì a godersi i nipoti.

Invece la sua storia è tutta sotto di me.
Ci metto un sacco di tempo, o così mi pare, prima di aprire.
C’è silenzio intorno. Ci sono cinque persone, ma stanno tutte trattenendo il fiato.
Apro.
Prendo la scatolina di zinco e ripongo le cose che trovo lì dentro.
Sono due.
L’elefantino colorato lo metto per secondo.
Guardo la madre, mi fa sì col capo.
Mi alzo.
Esco dalla fossa.
I genitori vogliono vedere.
Un mio collega cerca di fargli cambiare idea ma loro aspettano questo momento da ventiquattro anni: – Siamo pronti – dice lui.
Gli porgo la cassettina.
Io fisso l’elefantino colorato che gli ha tenuto compagnia per tutto questo tempo.
Loro no.
Alzo gli occhi e incontro quelli di lui.
Adesso non possiamo più abbassare lo sguardo, stupidi maschi orgogliosi.
È lei a rompere il ghiaccio: – Posso portare io la scatola fino all’ossario?
Guardo il mio collega anziano, ci mette tre secondi a decidere.
Va a prendere un paio di guanti nuovi, quelli grandi.
– Si metta questi – Le dice.
Ci incolonniamo dietro la sua dignità.
Quando arriviamo ci affida la scatolina. Prendo il pennarello nero.
Cerco di mantenere una buona calligrafia.
Sul tappo scrivo il nome, il cognome e una sola data, insieme alla sigla N.M.
Non sono le sue iniziali,
È l’aria frizzante di quella mattina che non ha potuto respirare, della storia che non ha potuto vivere.
N.M. è una sigla che non si scrive mai per intero.
Neanche adesso.

 

Il morto.

Tempo fa ho scritto uno stornello in rima e non avevo mai pensato di inserirlo in questo blog. L’ultima strofa è un omaggio al grande narratore di storie Tiziano Sclavi.

Il Morto

Il morto stecchito

Il morto schiacciato

Il morto sparito

Il morto trovato.

Il morto che incanta

Il morto al salterio

Il morto per finta

Il morto sul serio.

E l’uomo che veste il morto: “m’inventro…”

Lo muove e lo sposta con mille cure

Guarda un involucro “…e chi c’era dentro…”

Si chiede “…dov’è che è andato a finire?”.

Il morto per caso

Il morto ammazzato

Il morto appeso

Il decapitato.

Il morto da poco

Il morto che tarda

Il morto per gioco

Il morto che parla.

Per chi all’obitorio il morto giace,

Ci son meccanismi da sempre in uso

Riceve fiori, cordoglio, una prece,

Finché giunta l’ora non viene chiuso.

Il morto normale

Il morto che … insomma

È rimasto uguale

Sembra che dorma.

Il morto da tempo

Quello di giornata

Il morto “è uno scempio!”

Il morto a chiamata.

E le Parche giudici mai considerate

Tendon sul tuo capo la lama di rasoio

E svolgi le matasse con giornate avolterate

Finché Atropo ti taglia dal suo filatoio.

Il morto per sbaglio

Il morto per scelta

Il morto a serraglio

Il morto alla svelta.

Il morto nel sonno

Il morto cremato

Il morto in autunno

Quello bendato.

E a guardar tutti seduta e arcigna

La morte che gufa, la morte che ghigna.

L’urlo silenzioso.

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L’anziana signora riposa nel feretro. Ha pelle di bambola e un trucco leggero che le dà un’espressione serena; come si dice in questi casi, sembra che dorma.

Indossa un tailleur nero e un foulard rosa.

Una mano carezza i capelli pettinati, una bocca singhiozza, alcune braccia si intrecciano cercando conforto.

Un mazzo di fiori si posa sul velo trasparente che copre le gambe spostandolo appena.

Non riesco a mettere a fuoco tutto insieme, e ricordare quel momento è un mosaico di dettagli distanti tra loro.

L’immobilità della morte stride con la vita come un’unghia passata sulla pietra.

Quella scena è surreale ma ormai mi è familiare.

Noi quattro stiamo composti ed eleganti, in disparte, in attesa di entrare in scena.

In quel momento ci faranno spazio affidandoci la loro cara.

Prima che ciò accada entra il marito.

È molto anziano ma come potevano impedirgli di dare l’ultimo saluto alla sua amata?

Siede su una carrozzina spinta da qualcuno.

Lui è immobile, ad eccezione di un braccio e del volto.

Li guardo.

Penso a quanta storia hanno visto insieme, a quanto ne hanno scritta con la punta fine con cui la scrivono le persone comuni, penso che forse sono stati lontani durante la guerra, forse si sono creduti morti finché gli occhi di uno non hanno visto l’altra; quegli stessi occhi increduli che si guardavano alla nascita dei figli.

L’anziano appoggia la mano buona sulla sponda del feretro, trema, lo afferra come se volesse frantumarlo. Si tira avanti, tanto che l’uomo dietro di lui lo sorregge per le spalle. Il marito nemmeno si volta per quella presa, continua nella sua disperazione.

Dalla sua posizione riesce a vedere appena il volto della donna.

La mano si serra, col pugno sbatte sul bordo di legno, alza gli occhi al cielo. Le lacrime escono a gocce dense, nette, divise l’una dall’altra, cadono sullo zigomo sporgente e poi si disperdono tra le rughe delle guance.

Apre la bocca come se volesse urlare ma lui non ha voce e quell’urlo rimane spento, silenzioso e la sua mano sbatte sul bordo ancora più forte, come se quel rumore potesse sostituire l’altro.

Una mano lo carezza sul volto e lui cambia espressione, come se fosse tornato adesso nella stanza dopo aver fatto un viaggio lungo una vita.

Mi passa vicino, mi guarda e con la mano buona prende la mia, la stringe appena e mi fissa finché può.

Adesso sì, ce l’ha affidata.

Crepare

 

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Verbo crepare.

Siamo abituati a usarlo per definire brutalmente: morire.

Oggi stavo spazzando il vialetto di un cimitero.

Sono stanco.

In una settimana ci sono stati parecchi funerali.

Un anziano con la schiena piegata mi passa vicino, fa forza sul bastone per mettersi dritto, mi fissa per qualche istante, senza espressione, come distratto da un pensiero antico. Poi mi dice:

– Qui si crepa, si crepa e basta!

E prosegue.

Crepare vuol dire fare le crepe.

Fa le crepe la terra sotto al sole, il ventre di mia madre, il castagnaccio in forno.

Crepa il volto sotto le rughe, una relazione, l’asfalto, le case.

Crepano le faglie, le foglie, i tronchi e le conchiglie.

Crepa persino il lupo.

La cosa bella delle crepe è che ciò che è crepato non si è ancora demolito.

E quindi può essere riparato.

Mi viene in mente che finché c’è crepa, c’è speranza.

Una signora mi guarda strano quando si accorge che ho un sorriso scemo mentre spazzo.

Con questa tramontana mi si sono pure crepate le labbra.

Semplici domande

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Servizio da portantino.

Arriviamo puntuali alla chiesa, portiamo dentro il feretro e lo posiamo piano sul carrello d’acciaio. Prendiamo i fiori e li sistemiamo intorno alla cassa.

Il cuore fatto con le rose bianche lo mettiamo sul coperchio, appena sopra alla composizione principale.

Chiudiamo il grande portone di legno e ci sciogliamo: prima di quaranta minuti la funzione non sarà finita.

Dopo un caffè torniamo nella piazza della chiesa e aspettiamo in piedi, abbastanza lontani dal nugolo di persone che è rimasto fuori.

– Ciao.

Mi volto di scatto per ricambiare il saluto e capire da chi viene. È un ragazzo del posto che è sempre presente ai funerali. Ha un problema cognitivo che lo fa sembrare un bimbo delle elementari.

Mi sento sempre in imbarazzo in questi casi. So perché: ho paura di non essere all’altezza, dire qualcosa di sbagliato. Di solito sono loro che mi mettono a mio agio.

– Oh, ciao – Risposta rigida: non sono naturale.

– Quando finisce la messa?

– Eh, di solito ci vuole quasi un’ora – Mi scopro a spolverarmi la giacca per distogliere lo sguardo.

– E dopo?

– Lo portiamo al cimitero – Adesso mi strofino un orecchio.

– Quello di paese?

– Sì – Comincio a sentirmi più rilassato, le risposte scorrono fluide.

– Quando è morto?

– Due notti fa.

– Dove va?

– Eh… come ti dicevo, proprio qua, al cimitero di paese.

– Ma dove va? – I suoi occhi sono piantati nei miei; sembra il gioco dei perché.

– Nel settore nuovo, a terra – Circoscrivo il campo delle risposte.

– Ma poi dove va?

– Dopo almeno dieci anni lo tolgono, e solo allora deciderà la famiglia.

Mi fissa. C’è qualcosa che mi sfugge.

– Non ho capito… dove va?

– Deve stare per tanto tempo a terra e poi vedremo. Non posso saperlo adesso – Sono di nuovo in imbarazzo.

– Anche mio padre è morto, però tanti anni fa – Continua a guardarmi come se quello che ha appena detto non gli procurasse nessuna emozione. In realtà è concentrato su quello che dico.

– Oh, mi spiace tanto.

– Ma il mio papà dov’è andato?

– Non so… ricordi se era nella cassa di legno soltanto, oppure c’era lo zinco?

– Cosa?

Lo guardo negli occhi. Sono puntati sui miei e non lasciano scampo; sono occhi di bambino e io gli sto facendo delle domande tecniche: mi sento un idiota.

– Lo hanno messo per terra oppure è nel muro?

– Io volevo sapere dov’è andato.

– Vorrei risponderti, credimi, ma devo sapere se è per ter…

– Io voglio sapere se è andato in paradiso.

Aspettava da me la  risposta alla domanda che l’uomo si fa da quando esiste, e l’avrebbe presa per buona.

A volte in termini dispregiativi queste persone vengono chiamate ritardate.

I ritardati siamo noi, che perdiamo di vista le cose più naturali; ci sentiamo sempre sotto esame, non riusciamo più a scendere dalla nostra supponenza e riconoscere un puro, da un curioso.

Siamo in ritardo sulla semplicità e forse non siamo più in tempo a sincronizzarci di nuovo.

Piccola grande donna

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La fossa è pronta.

L’escavatore è spento a ridosso del cumulo, i giunti idraulici fanno ancora rumore e sembra una bestia che aspetta la preda.

Il protagonista della nostra giornata è un giovane uomo: i verbi della sua vita resteranno coniugati al passato.

Quello che sappiamo delle persone che arrivano, lo leggiamo sui manifesti funebri appesi in città. Quando varcano l’ingresso del cimitero è sempre una sorpresa.

Di solito fissiamo il feretro, per non incrociare gli sguardi dei familiari. Il loro dolore lo possiamo già ascoltare, così preferiamo non doverlo anche leggere.

Ma quando nella prima fila c’è qualcuno che non supera il metro e mezzo, nasce una sorta d’istinto innato che ti obbliga a partecipare, a essere coinvolto, specialmente se il defunto è così giovane.

La bimba non può avere più di sette anni e cammina incredula, occhioni spalancati, guardando per terra. Una mano sta in quella della madre, l’altra stringe qualcosa.

Caliamo la cassa e aspettiamo che il parroco faccia il suo mestiere.

La gente parla; tra i discorsi ne filtra uno:

– Poverina, è così piccina che non sa nemmeno cos’è la morte.

Poi tocca a noi.

Ci avviciniamo alle due estremità del cumulo di terra, dove abbiamo infilato le pale: – Possiamo procedere? – Chiediamo.

La bimba alza la testa a guardare la madre; le scuote la mano e lei sembra tornare: – Aspettate, per favore. La bambina voleva mettere una cosa sopra…

Sempre per la mano si avvicinano tutt’e due.

La piccola lancia qualcosa che cade laggiù, sopra al tappo.

Guardo.

Il mondo si dissolve e vedo soltanto quel piccolo oggetto caduto sulla bara.

E’ di Pyssla.

Le usa anche mia figlia.

Sono quei piccoli cilindretti colorati, usati per costruire immagini o parole, sopra piccole basi; vanno coperte con carta da forno e stirate. I cilindri diventano morbidi e si schiacciano quel tanto che basta per rimanere tutti attaccati insieme.

Come gli affetti.

Quei cilindretti sono un messaggio scritto.

Da sopra si legge alla rovescia.

“ENEB OILGOV IT”.

Mi si piegano le ginocchia quando penso che l’importante è che si legga di sotto.

“TI VOGLIO BENE”.

Forse i bambini non comprendono la morte, ma sanno interpretarla benissimo.

Il giardino segreto

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Ci sono posti segreti, nascosti alle intenzioni anziché agli occhi.

Ce n’è uno in ogni comune.

Lo puoi trovare accanto al cimitero, coperto di ulivi, di prati all’inglese, o di viti, che vecchi contadini si ostinano a coltivare anche se quella terra non gli appartiene più.

Può essere anche altrove, vicino a un ruscello, coperto da macchie di bosco selvaggio e funghi, oppure rivelarsi arido e roccioso se la terra di quel posto è poca e avara.

Vedrai caprioli saltarci nella stagione degli amori, oppure piccole lepri allontanarsi dall’odore di una volpe o dal fucile di un bracconiere.

Possono variare in grandezza e dimensione e puoi passeggiarci sopra con lo spirito leggero e spensierato, o preso dal tumulto di una passione.

Non troverai nessuna mappa a indicarli e rari sono i carteggi che ne parlano.

Non metterti alla loro ricerca, sarebbe ardua.

Oggi ne ho visto uno e l’ho fissato per interminabili istanti, preso dall’inquietudine del mistero della vita. Dall’ossessione che in ogni luogo c’è questo mostro che dorme.

E il risveglio è delirio.

Perché i paesi che scoprono questi luoghi sono colti da sventura.

Mi piace chiamarli giardini segreti.

I comuni devono catalogarli con altro nome: spazi adibiti a sepoltura per calamità naturali.