Corpi lontani

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Entro nella stanza da letto con passi costretti che uno pesta l’altro e lo cerco piano con gli occhi.

Il dolore alla mano è perché stringo la maniglia d’acciaio della valigetta per la vestizione. Me ne accorgo quando lascio la presa e il pollice avverte il solco sulle dita.

Sul letto c’è un uomo in completo intimo.

Morto.

Quando ero piccolo mio fratello ebbe una grave crisi asmatica.

Per mesi prima di mettermi a dormire passavo un tempo indefinito a osservare che respirasse, che il suo addome si sollevasse ritmico e senza spasmi. Ricordo che avvertivo netta l’immobilità della stanza e degli oggetti dentro il mio campo visivo.

Un corpo vivo che dorme zampilla di vita: può esserci il guizzo involontario di un muscolo, un rumore nell’addome, un respiro.

La morte invece è assenza.

In questa stanza i miei occhi rifiutano quel corpo immobile e fissarlo mi dà l’illusione che siano gli oggetti a essere vivi.

Una tapparella mossa dal vento, lo scricchiolio del parquet, le lancette di un vecchio orologio, il ronzio del ventilatore…

Il mio cervello rigetta quell’immagine e provo un senso di vertigine, come se tutto quello che c’è intorno andasse pian piano in dissolvenza.

Ma è il corpo che sembra allontanarsi.

– Cominciamo? – La voce del collega anziano mi richiama alla realtà; tiene sulle labbra il sorriso di chi la sa lunga…

Sono trascorsi quasi dieci anni da quel momento, ma le stanze continuano a fare rumore.

Gli invisibili

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Con gesto sinuoso e continuo faccio un doppio cappio e stringo il tessuto fino al pomo d’adamo.

La cravatta trattiene il calore del corpo e le emozioni. Carezzo il nodo per assicurarmi che sia dritto con le punte della camicia e non si veda l’ultimo bottone chiuso.

Infilo prima braccio sinistro poi il destro, aggiusto la giacca sulle spalle, i bottoni escono dalle asole, le tasche sono chiuse, tutte e due. Due colpetti di routine sul petto, più a scuotere la tensione che la polvere.

Le pense dei pantaloni cadono sul collo dei piedi, le scarpe sono lucide. Bagno un fazzoletto di carta e tolgo una macchia di polvere sulla punta di una.

Cerchiamo la perfezione nei nostri abiti e nella nostra postura, ci muoviamo lentamente limitandoci allo spazio necessario al nostro lavoro.

 

Il resto del tempo lo passiamo sugli attenti, mani giunte, come soldati o camerieri, senza guardarci intorno.

Quando ci muoviamo è in sincrono e in silenzio. Sappiamo quello che c’è da fare e per dirlo usiamo gli occhi.

Una famiglia in lutto non ha bisogno della nostra eleganza, ha bisogno che siamo invisibili.

Il caos genera inquietudine, l’ordine tranquillità.

 

Cinquanta

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Uno.

Mario faceva l’artigiano.

Due.

Aveva tre figli maschi ma nessuno era entrato nell’azienda di famiglia.

Tre.

Non glielo avrebbe mai detto ma era felice perché ognuno aveva trovato la sua strada.

Quattro.

Indipendentemente da lui.

Cinque.

Quando dovette chiudere la sua impresa, ringraziò il cielo di non aver lasciato i suoi ragazzi senza lavoro.

Dieci.

Sua moglie lo aveva sempre amato, dal follemente di quando erano fidanzati, al sei stato l’unico uomo della mia vita, sul letto di morte.

Quindici.

Quando era piccolo suo padre lo aveva picchiato una volta.

Ventisei.

Il suo orto era tenuto meglio di quello del vicino, tiè.

Trentadue.

Una volta aveva desiderato un’amica di famiglia e si era sentito sporco.

Quarantuno.

Intorno ai sessanta aveva perso la passione per la politica.

Cinquanta.

Adesso il coperchio non si vede più. Gettiamo la pala lontana quasi con rabbia, senza curarci che forse è un gesto brutto da vedere.

E’ il nostro sfogo. Ora ci penserà la ruspa.

Mario non esiste.

Noi necrofori siamo come le copertine in fondo al libro. Chiudiamo una storia dopo che qualcun altro ha già scritto la fine.

 

Il cimitero ebraico

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Tempo fa ho lavorato in un cimitero ebraico.
Non ci si può entrare a cuor leggero.

Le tombe lì dentro parlano.

L’atmosfera che si respira è austera e solenne, tutto è un simbolo, un richiamo alla storia, alla loro.
Forse è la consapevolezza che fa la differenza.
Ciò che risalta di più sono le tombe degli anziani, quelli che l’Olocausto l’hanno vissuto sulla propria pelle.
La maggior parte.

Non è aperto al pubblico, si deve suonare per entrare. Perché in passato quel luogo ha subito violazioni di ogni genere da parte dei vandali.

Ci si muove per i viali in punta di piedi, come per non disturbare il sonno eterno e quando incrociamo un familiare ci salutiamo con un gesto.

Le tombe sono perenni, ognuna ha la sua struttura ma i materiali usati sono gli stessi e così tutto assume un aspetto uniforme, come fosse un enorme monumento in continua mutazione.

Non c’è una lapide o una scultura che accenni a un bisogno di rivalsa oppure al rancore ma tutto è impostato a tramandare un messaggio di speranza, di pace, di memoria.

Durante la sepoltura i parenti si voltano verso Israele e intonano un canto o una preghiera; anche i defunti sono sepolti guardando in quella direzione.

Ma che tu sia un visitatore, un familiare o un operaio, c’è una tradizione che è importante da rispettare, a ogni costo.
Una sola.

Se osservi le tombe puoi notare che su ognuna ci sono dei sassolini.
Ce ne sono di colorati, di pietra oppure di vetro ma tutti hanno lo stesso significato. Bellissimo.

Ognuno di essi è un viaggio.

Ogni volta che un parente o un amico lontano passano per visitare una tomba, lasciano uno di quei sassi: è una testimonianza, un pellegrinaggio per tenere viva la memoria.

Ci sono tombe piene di piccole pietre e le hanno posate mani provenienti da tutto il mondo.

Non si possono rimuovere. Mai.
Perché servono per dire a chi arriverà dopo che è passato qualcuno: non importa chi, importa che.

Fiori d’acciaio

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Esumazioni a terra.

Fa un caldo terribile.
La stoffa del cappellino non riesce a tenere il sudore. La tesa protegge gli occhi dal riverbero del sole che sui marmi delle tombe è accecante come sulla neve.

Devo ridurre le ossa di una signora morta quindici anni fa.

Poso la scatola di zinco alla testa del feretro e comincio.

A un metro da me c’è il marito che parla, parla continuamente e di qualunque cosa ma non di quello che sto facendo.
Io e il collega rispondiamo tentennando il capo e sorridendo.

Dopo aver sistemato testa e spalle, apro il tessuto della giacca e provo una strana sensazione, un disagio, come se un elemento scombinasse la routine.
Non lo capisco subito ed è questo che mi frega.

C’è il reggiseno.

Alle defunte non lo mettono.
Ne ho mai trovato uno durante queste operazioni? Stupido! Come ho fatto a non capire?

Nell’istante di incertezza mi ritrovo in mano una sfera che sembra gelatina.

Mi nascondo dietro la mia tesa come un bambino dietro al pollice ma vorrei sparire.

– Eh sì, perché lei… – Da adesso il marito resta in silenzio.

Io continuo a mettere tutto nella cassettina. Tutto, perché tutto le apparteneva, la completava.

Non vedo subito la giovane donna che si sta avvicinando. Sento prima i passi leggeri che sgranano la ghiaia. Ci scambiamo due buongiorno, il suo di circostanza il mio di imbarazzo.

Mi rendo conto che sta piangendo quando chiede al padre: – È pronta?

L’operazione continua nel silenzio, interrotto dai singhiozzi di lei. Quando ho finito mi ringraziano e mi salutano; solo adesso alzo la testa per ricambiare.

Solo adesso vedo che la giovane donna indossa una bandana e non ha le sopracciglia.

Torno dietro la mia tesa.

 

Lenzuola e vecchi merletti.

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Stiamo liberando alcuni sepolcreti che in seguito verranno demoliti.

Arriva una vecchina, piccola e grinzosa, con un sorriso così delicato e sincero che mette di buon umore solo guardarla.

Si avvicina e incrocia le braccia sul grembo. Le indichiamo la prossima tomba da liberare – E’ una familiare?

– Era mio marito – dice facendo seguire un istante di silenzio pieno di ricordi che le accentuano il sorriso – Siamo stati insieme per venticinque anni. Mi ha lasciato qualche giorno prima di poter festeggiare le nozze d’argento.

La guardiamo in silenzio perché nei nostri silenzi loro sentono partecipazione; hanno bisogno di venire ascoltati, non compatiti.

Continuiamo a fare l’operazione di apertura del feretro e al momento di togliere il coperchio di zinco, l’ultima barriera che separa il mondo dei vivi da quello dei morti, la signora torna da noi.

– Aspettate per favore – Apre la borsa che tiene a tracolla e ne estrae un piccolo fagotto bianco.

– Non posso permettermi un ossario murato – Dice mantenendo sorriso e dignità – Se fosse consumato lo dovrete mettere nell’ossario comune, però… – Ci allunga il piccolo fagotto da cui sbuca un merletto – vorrei che prima di infilarlo in quel posto tetro, metteste le ossa qui dentro, così rimarrà tutto insieme.

E’ una federa.

Ci capitano spesso richieste di questo tipo, per impedire fino all’ultimo di disperdere un nostro caro tra mille altri.

La salma è pronta per essere ridotta. Disponiamo le ossa nella federa come se componessimo un piccolo mosaico. Lo posiamo nell’ossario comune.

Il sorriso della signora si accentua ancora e si stringe nelle spalle, come se abbracciasse un ricordo e bisbiglia: – Tesoro mio, ne ha viste quella federa di cose… – Sulle piccole guance due rossetti la colorano di una tenerezza infinita, che vorrei togliermi i guanti e riempire quell’abbraccio col mio.

 

 

 

Il beccamorto

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Tra i nomignoli che ci affibbiano più spesso c’è quello di becchino o beccamorto.
In tempi recenti su Facebook si sono diffuse leggende di ogni genere, relative all’origine di queste nomenclature, e altre legate al mio mestiere.
Alcune sono totalmente false, altre solo in parte vere.

Il beccamorto o becchino riassume in un solo individuo i compiti che oggi sono divisi tra più figure professionali.

Gli studiosi del medioevo ci hanno tramandato un sapere fondamentale ma l’aspetto medico e mortuario erano molto semplificati, non tanto a causa delle minori conoscenze, ma della scarsità di strumenti e pulizia.

Nel medioevo oltre alla normale attività necrofora, si aggiunse l’incredibile mole di decessi, dovuti a pestilenze o epidemie. Le città avevano spesso un odore nauseabondo, specialmente nei periodi caldi.

In questo periodo i necrofori oltre a assumere un ruolo importante per la salute pubblica, avevano il compito di girare per boschi e campagne in cerca di persone decedute in totale solitudine, allo scopo di dare loro degna sepoltura.

Era necessario che si tutelassero dal pericolo di aggressioni da parte di banditi o disperati. Probabilmente è per questo che il becchino assunse una sorta di divisa,  che fosse al tempo riconoscibile da tutti e incutesse timore, sfruttando la grande superstizione delle persone.

Il loro aspetto li faceva somigliare a dei corvi, animali che all’occorrenza si cibano anche di carogne e, come i gatti neri, nella mentalità medioevale portavano sfortuna e malaugurio.

La questione sull’origine del nome si disputa su più aspetti che possono derivare da quanto segue.

I becchini indossavano vesti nere. La mantella aveva un cappuccio che concludeva con una punta, chiamata becca.

Indossavano una maschera rigida, concettualmente molto innovativa, che proteggeva gli occhi (quando venivano bruciate le vittime di un’epidemia, il fumo era insopportabile) e impediva l’inalazione dei cattivi odori. Si chiudeva in una specie di becco in cui inserivano essenze profumate e tessuti che filtrassero gli effluvi esterni. La leggenda vuole che fosse con questo becco che pungevano i defunti nelle parti sensibili (alluci, fianchi, parti intime) per verificarne l’effettiva morte. Ma lo escludo.

All’epoca molti becchini erano anche medici e giravano con una bacchetta che serviva per toccare gli ammalati e forse poteva servire per pungere (beccare) i defunti per i soliti motivi.

La faccenda che i beccamorti fossero chiamati così perché mordevano gli alluci ai defunti per scongiurare morti apparenti è certamente assurda.

Un fiore soltanto.

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In un piccolo cimitero c’è una tomba.

Tra i marmi colorati, le scritte metalliche dei nomi, i fiori e le immagini sorridenti, risalta una croce di legno sbiadita, infilata in un cumulo di terra spoglia.

Non è soltanto per la sua semplicità che si fa notare, che talvolta è una necessità o una scelta.

E’ per il suo abbandono.

Ogni volta che capito lì, su quella tomba c’è solo un fiore.

Sempre un fiore.

Alcune signore, assidue frequentatrici, pensano a togliere le erbacce e mi hanno raccontato quello che sanno.

Il nome inciso sulla targhetta di alluminio dorato, fissata alla croce, non lo ricorda nessuno. Si dice fosse una donna sola al mondo che era nata in quel paese ma aveva trascorso la vita lontano. Quando fu sepolta l’accompagnava un uomo, un avvocato: il suo tutore. Non un parente.

Sulla tomba rimase per alcune settimane un mazzo di fiori; le stesse signore lo gettarono perché era ormai rinsecchito.

Qualche giorno dopo sul cumulo di terra spiccava il bianco e verde di una calla. Semplice, recisa e posata lì. Sembra che ogni settimana quella calla venga sostituita da una fresca.

Nessuna delle signore, nessuno di noi ha mai visto anima viva fermarsi a quella tomba. Ma quel fiore viene rinnovato puntualmente da allora.

Nella mia testa prende forma una storia che ha il sapore di altre storie che ho sentito o letto.

Mi immagino una vita di stenti, forse di violenza, forse di costrizione in uno di quei manicomi in cui si finiva anche solo per soffrire di convulsioni. Vesto quella donna col volto di Alda Merini.

La immagino indistruttibile davanti alle avversità, ancorata alla realtà grazie ai sogni.

Immagino una foto in bianco e nero, un primo piano o una figura distesa, appena svestita, irriverente per i suoi tempi. Immagino una sigaretta accesa, fumata solo a metà.

Immagino un amore vissuto al limite, fuori dal tempo, osteggiato da una società meschina. Immagino appuntamenti tra le foglie cadute in un bosco, baci irresistibili, sospiri e paura.

Immagino momenti di solitudine, colmabili solo con ricordi e speranze, immagino abbandoni e prevaricazioni, sottomissioni e indifferenza.

E poi immagino un addio, perché una storia così può solo finire con un addio.

E immagino qualcuno, che ha amato come non si può immaginare, di un amore proibito e folle, che deve rimanere segreto e sconosciuto per sempre; lo immagino cogliere quel fiore che sicuramente lei amava, che di certo questo amore coltiva con le sue mani e lo immagino venire di buio, oppure la mattina presto, quando è certo che non ci sarà nessuno a vederlo.

È una storia a lieto fine, perché ogni volta che il fiore viene cambiato viene rinnovata una promessa, un ricordo e quella tomba diventa per me un monumento alla vita, alla libertà.

Nonostante tutto.

Per ironia della sorte…

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L’ironia nel mio lavoro è sempre fuori luogo.

A meno che a farla non siano i diretti interessati (quelli vivi, intendo).

Però talvolta si presentano delle situazioni paradossali che strappano un sorriso alle persone che si trovano al cospetto del defunto.

Ho raccolto alcuni episodi che sono accaduti in mia presenza, in seguito ai quali neppure il dolore della morte ha impedito ai familiari di ridere di cuore o astrarsi totalmente dal dolore della perdita.

Polvere… sulla polvere.

Durante un servizio funebre (di quelli in cui vestiamo eleganti) siamo nell’abitazione del defunto per chiudere il feretro, quindi portiamo i fiori all’esterno e restiamo ad aspettare fuori dalla porta d’ingresso: deve arrivare il sacerdote a fare la benedizione. Capita assai spesso che qualche amico o parente alla lontana, si intrometta nel nostro lavoro o nelle faccende della famiglia che ci ha chiamato e voglia in tutti i modi rendersi utile.

Stavolta ce n’è uno che si è messo in testa di aprire l’anta della porta esterna, per farci uscire meglio con il feretro. Ma l’anta non vuole saperne di aprirsi. L’uomo è così determinato nell’intento che corre nel suo garage e torna con la borsa degli attrezzi. Mentre il prete da la sua benedizione finale, lui sbatte con martello e scalpello, coprendo tutti gli altri suoni comprese le preghiere, finché l’uscio non si apre scricchiolando.

La figlia del defunto si affaccia inviperita ma appena vede che sotto la piccola anta c’era un dito di sporco, tutto il dolore sparisce, corre a prendere detersivo e spugna, per pulire in tutta fretta. Durante l’operazione ripete, a mo’ di litanìa: – che figura, che vergogna! – Così che tutti i presenti si accorgono dello strato di polvere che altrimenti sarebbe rimasto inosservato ad eccezione, forse, di qualche vecchia comare del condominio.

Una caduta di … stile.

Altro funerale con il vestito elegante. Il figlio vuole che il prete benedica la salma prima della chiusura. È inverno e aspettiamo il sacerdote all’interno della grande stanza che la famiglia ha destinato a camera ardente. Non siamo più di dieci persone.

L’uomo di chiesa è in ritardo e i presenti cominciano a spazientirsi, finché non suona il campanello. Due di loro scendono per accoglierlo. Il prete di quel posto è un omone alto e robusto, piuttosto anziano. Dalla nostra posizione non vediamo la porta d’ingresso, prima della quale ci sono due rampe di scale da salire.

Sentiamo l’eco della vociona del sacerdote e quella dei familiari che parlano; sono ancora fuori dall’abitazione. Ad un tratto un mugugno interrompe la conversazione, la nipote che era scesa per le scale urla e subito dopo si sente uno schianto e un lamento di dolore. Altre due persone escono dalla stanza per accertarsi dell’accaduto.

Un paio di minuti dopo una di loro rientra col sorriso sotto i baffi: – E’ caduto il prete, è inciampato sul pianerottolo ma non si è fatto niente. E’ seduto su uno scalino, gli porto un bicchiere d’acqua.

Non finisce di parlare che la voce si distorce per trattenere uno sghignazzo: – Ha fatto un volo! – Esclama scuotendo la mano come in un saluto. I familiari ancora nella stanza cominciano prima a sogghignare, poi un paio di loro si lasciano andare in una risata liberatoria che coinvolge tutti i presenti.

L’uomo di casa, ancora sorridente, si avvicina al padre e lo carezza sul viso: – Scusaci papà, ma se da qualche parte davvero ci vedi, sono sicuro che ci perdonerai – e gli schiocca un bacio sulla fronte.

Noi cerchiamo di rimanere impassibili e sembra che ci riusciamo perché il figlio si scusa addirittura con noi per la sua reazione.

Brum.

Siamo al cimitero per un seppellimento.

Arriva il corteo funebre e dopo i rituali siamo pronti per calare il feretro nella fossa. Tra la folla si fa notare un bambino che non può avere più di due anni. Scorrazza dappertutto e la madre fatica a tenerlo.

Quando il mio collega sale sull’escavatore per ricoprire lo scavo la signora richiama l’attenzione del ragazzino: – Guarda tesoro, guarda come fanno questi signori a ricoprire la buca – Al che il piccolo si ferma ad osservare.

L’escavatore si accende con uno sbuffo nero che esce dallo scappamento.

Il bimbo sgrana gli occhi, si volta verso la mamma e le dice tutto impressionato: – Mamma! Tato brrum, cacca!

La tensione si stempera e i familiari abbracciano il piccolo celebrando la sua tenerezza, qualcuno ride, altri cominciano a chiacchierare.

Anche per noi adesso è più lieve concludere il lavoro.

 

Un lenzuolo bianco

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Entrando nella morgue si accede a una dimensione diversa dalla realtà.

E’ un limbo.

Un luogo in cui restano in sosta i corpi, tra l’istante della morte e il momento dell’esposizione nella camera ardente. E’ quel periodo di transizione in cui un corpo muta anche giuridicamente, passando dallo status di salma a quello di cadavere.

La maggior parte delle morgue che ho visto ha un aspetto metallico, asettico, quasi futuristico. Lettighe, lavabi e armadietti sono di acciaio e le stanze rivestite di ceramica bianca. In qualche punto si staglia la cella frigorifera, di varia grandezza.

E poi fa sempre freddo.

La temperatura deve rimanere bassa per preservare i corpi, anche d’estate. Quel ghiaccio così innaturale che si avverte fin dentro le ossa, si presta perfettamente per un simile ambiente.

Ho sempre la sensazione di vivere in un incubo messo in pausa: tutto è immobile, fisso. Le lenzuola bianche che avvolgono i corpi sulle lettighe, sembrano nascondere un mistero.

Il mistero della morte.

Come se fossero il panneggio di una statua di Michelangelo, nascondono la fissità di un corpo. Non riesco ad abituarmi all’assoluta mancanza di movimento; è come se il mio cervello la rifiutasse, come se inconsciamente volessi scacciare il fatto che anche io…

Ho sempre avuto la sensazione che l’immobilità di questi luoghi fosse innaturale.

Tutti gli oggetti sono inanimati, ovvio. Ma le stanze di una casa, un locale, un teatro, sembrano pulsare, respirare una sorta di vita parallela.

Fate attenzione a quando siete soli in una stanza: non sentite il vostro respiro? Non vedete muoversi ritmicamente la cassa toracica? Non avvertite un fremito involontario, un muscolo che scatta, una deglutizione? E non vi ha mai dato l’impressione che quella stanza viva con voi? Per voi? Che siate voi a darle un senso?

Nelle morgue sembriamo immobili anche noi, infilati nelle nostre tute bianche, asettici, ad eseguire sempre i soliti movimenti, come in una danza rituale.

Sembra che sia quel luogo a far perdere anche a noi la nostra umanità.

E quando gli occhi cadono su quelle lettighe, sotto quelle lenzuola talvolta intravediamo… sembra quasi che…

Ma distogliamo lo sguardo e ci sforziamo di vedere semplicemente un tessuto inanimato.

Un lenzuolo bianco.