Andata e ritorno.

Di domenica nei cimiteri ci sono visitatori diversi che nel resto della settimana.

Non ho molto da fare, mi sbrigo in un’ora.

Sento dei passetti che scalpicciano dietro di me.

– Scusa signore, quando torna la mia mamma?

Mi trovo davanti una valanga di treccine, fiocchi e scarpe fluorescenti. La bimba mi guarda seria. Ha in mano un sacchetto che sfrega per terra.

La segue in corsetta un uomo.

– Tesoro non disturbare, il signore sta lavorando – Mi si rivolge – Scusi!

– Ma papà, lui lo sa di certo quando torna la mamma, lavora qui dentro!

L’uomo si accuccia, la prende per le spalle.

– Tesoro: nessuno può sapere quando torna la mamma – Lei imbronciata guarda per terra, lui mi stringe gli occhi crucciato e torna a parlarle – Dillo a questo signore: la nostra mamma è una dottoressa così brava, che l’hanno chiamata i più grandi scienziati del mondo per curare i bambini poveri che soffrono.

– Sì, però anch’io sono stata male e a me non mi ha curato.

– Lo sai, topina, la mamma è tanto lontana che non funzionano nemmeno i telefoni, altrimenti sarebbe venuta subito da te.

Io vorrei sparire.

– Signore, tanto se torna la vedi di sicuro, vieni – Mi porge la manina. Io guardo il padre in cerca di conforto, lui lo spera in me.

Mi porta davanti alla tomba di una giovane donna, è qui da qualche mese ma non ricordo nessuno di loro, forse non ho ricevuto io il funerale.

– Vedi, quando la riportano atterra qui, dove c’è la foto – Indica sorridente l’immagine.

Mi accuccio e cerco di tenere una parte credibile.

– Quanti anni hai signorina?

Mi porge una mano aperta, con l’altra si piega il mignolo di quella.

Le strizzo un occhio: – Quel mignolino vale metà, giusto? Hai quattro anni e mezzo!

Lei sorride e tentenna felice le sue treccine.

– Ascoltami bene: io sono sempre qui, ti prometto che se torna ti chiamo subito!

– Devi telefonare a papà, ma lo sai il numero?

– Certo! Ho il numero di tutti quelli che devono tornare.

– Ma te stai sempre qui? C’hai il letto per dormire?

– Eh sì, se qualcuno arriva di notte come si fa?

Mi guarda storta per tre secondi eterni.

– Ma te l’hai visto qualcuno che è tornato?

Guardo l’uomo, lui strizza le labbra e fa sì con la testa. Sto al gioco.

– Vedi quel posto là? – Indico il campo che abbiamo esumato di recente – Quelli sono già tornati.

La bimba resta a guardare qualche istante in quel punto, si volta e mi fissa:

– E se torna di notte? – Mi indica la lampadina sulla croce – Questa lucina è piccina e forse non la vede.

Lui la prende per mano: – Tesoro basta, dobbiamo andare.

Gli sorrido, ormai siamo in ballo e si balla fino in fondo: – Aspettate qui.

C’è un angolo in cui la gente accumula piccoli accessori che non usa più, talvolta funzionano ancora e gli altri visitatori attingono da lì. Prima ho visto una cosa.

Torno dalla bimba impugnando un lumino a batteria dalla luce rossa.

– Ecco qua – Lo poggio sulla tomba – Se torna sarà incuriosita da questa luce diversa dalle altre e saprà dove atterrare.

Lei sorride tutta contenta: – Bellaaaa! Papà, mettiamola anche a casa.

Ridiamo entrambi, lei ci osserva con uno sguardo severo, che noi maschi non capiamo mai niente.

Ci salutiamo.

Mentre mi allontano sento lei: – Papà, ma se diventiamo poveri anche noi, la mamma ce la rimandano?

Adesso sono spossato. Rimetto a posto gli attrezzi, chiudo le mie stanzine e mi avvio verso il cancello.

I due sono andati via. Butto un occhio sulla tomba della donna e scopro cosa aveva la bimba nel sacchetto. Attaccato alla croce c’è un foglio argentato con un cuore rosso e qualcosa scritto in maniera grossolana, che non ho voglia di leggere.

Esco con la gola annodata che si scioglie solo quando accendo la radio e inizio a cantare a squarciagola.

N.M.

Il piccolo coperchio bianco è sbucato all’improvviso.
Il collega ha pettinato la terra centimetro dopo centimetro, dalla ruspa ha visto sfogliarsi la vernice e si è fermato. – Te la senti? – Mi fa.
Non lo guardo neppure: come faccio a dirgli di no?
Entro nella fossa, sistemo la tuta bianca e m’inginocchio.
Scavo con la mestola come quando da bambino giocavo sulla spiaggia.
Quando la terra è smossa la separo dal piccolo coperchio con i guanti.
M’immagino una storia impossibile per occupare i pensieri: a una vita mai vissuta devo almeno un sogno.

N.M. è nato una mattina presto che il sole stava sorgendo appena.
C’era tutta la famiglia.
Iniziò a camminare presto. All’asilo era tranquillo, ogni tanto bisticciava con un bimbo per difendere una compagna.
A calcio non era bravo, così fece rugby. Riuscì a giocare come professionista per alcuni anni, poi si sposò e cominciò a lavorare nell’azienda del padre.
Ebbe due figli, invecchiò con sua moglie e riuscì a godersi i nipoti.

Invece la sua storia è tutta sotto di me.
Ci metto un sacco di tempo, o così mi pare, prima di aprire.
C’è silenzio intorno. Ci sono cinque persone, ma stanno tutte trattenendo il fiato.
Apro.
Prendo la scatolina di zinco e ripongo le cose che trovo lì dentro.
Sono due.
L’elefantino colorato lo metto per secondo.
Guardo la madre, mi fa sì col capo.
Mi alzo.
Esco dalla fossa.
I genitori vogliono vedere.
Un mio collega cerca di fargli cambiare idea ma loro aspettano questo momento da ventiquattro anni: – Siamo pronti – dice lui.
Gli porgo la cassettina.
Io fisso l’elefantino colorato che gli ha tenuto compagnia per tutto questo tempo.
Loro no.
Alzo gli occhi e incontro quelli di lui.
Adesso non possiamo più abbassare lo sguardo, stupidi maschi orgogliosi.
È lei a rompere il ghiaccio: – Posso portare io la scatola fino all’ossario?
Guardo il mio collega anziano, ci mette tre secondi a decidere.
Va a prendere un paio di guanti nuovi, quelli grandi.
– Si metta questi – Le dice.
Ci incolonniamo dietro la sua dignità.
Quando arriviamo ci affida la scatolina. Prendo il pennarello nero.
Cerco di mantenere una buona calligrafia.
Sul tappo scrivo il nome, il cognome e una sola data, insieme alla sigla N.M.
Non sono le sue iniziali,
È l’aria frizzante di quella mattina che non ha potuto respirare, della storia che non ha potuto vivere.
N.M. è una sigla che non si scrive mai per intero.
Neanche adesso.

 

L’urlo silenzioso.

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L’anziana signora riposa nel feretro. Ha pelle di bambola e un trucco leggero che le dà un’espressione serena; come si dice in questi casi, sembra che dorma.

Indossa un tailleur nero e un foulard rosa.

Una mano carezza i capelli pettinati, una bocca singhiozza, alcune braccia si intrecciano cercando conforto.

Un mazzo di fiori si posa sul velo trasparente che copre le gambe spostandolo appena.

Non riesco a mettere a fuoco tutto insieme, e ricordare quel momento è un mosaico di dettagli distanti tra loro.

L’immobilità della morte stride con la vita come un’unghia passata sulla pietra.

Quella scena è surreale ma ormai mi è familiare.

Noi quattro stiamo composti ed eleganti, in disparte, in attesa di entrare in scena.

In quel momento ci faranno spazio affidandoci la loro cara.

Prima che ciò accada entra il marito.

È molto anziano ma come potevano impedirgli di dare l’ultimo saluto alla sua amata?

Siede su una carrozzina spinta da qualcuno.

Lui è immobile, ad eccezione di un braccio e del volto.

Li guardo.

Penso a quanta storia hanno visto insieme, a quanto ne hanno scritta con la punta fine con cui la scrivono le persone comuni, penso che forse sono stati lontani durante la guerra, forse si sono creduti morti finché gli occhi di uno non hanno visto l’altra; quegli stessi occhi increduli che si guardavano alla nascita dei figli.

L’anziano appoggia la mano buona sulla sponda del feretro, trema, lo afferra come se volesse frantumarlo. Si tira avanti, tanto che l’uomo dietro di lui lo sorregge per le spalle. Il marito nemmeno si volta per quella presa, continua nella sua disperazione.

Dalla sua posizione riesce a vedere appena il volto della donna.

La mano si serra, col pugno sbatte sul bordo di legno, alza gli occhi al cielo. Le lacrime escono a gocce dense, nette, divise l’una dall’altra, cadono sullo zigomo sporgente e poi si disperdono tra le rughe delle guance.

Apre la bocca come se volesse urlare ma lui non ha voce e quell’urlo rimane spento, silenzioso e la sua mano sbatte sul bordo ancora più forte, come se quel rumore potesse sostituire l’altro.

Una mano lo carezza sul volto e lui cambia espressione, come se fosse tornato adesso nella stanza dopo aver fatto un viaggio lungo una vita.

Mi passa vicino, mi guarda e con la mano buona prende la mia, la stringe appena e mi fissa finché può.

Adesso sì, ce l’ha affidata.

Crepare

 

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Verbo crepare.

Siamo abituati a usarlo per definire brutalmente: morire.

Oggi stavo spazzando il vialetto di un cimitero.

Sono stanco.

In una settimana ci sono stati parecchi funerali.

Un anziano con la schiena piegata mi passa vicino, fa forza sul bastone per mettersi dritto, mi fissa per qualche istante, senza espressione, come distratto da un pensiero antico. Poi mi dice:

– Qui si crepa, si crepa e basta!

E prosegue.

Crepare vuol dire fare le crepe.

Fa le crepe la terra sotto al sole, il ventre di mia madre, il castagnaccio in forno.

Crepa il volto sotto le rughe, una relazione, l’asfalto, le case.

Crepano le faglie, le foglie, i tronchi e le conchiglie.

Crepa persino il lupo.

La cosa bella delle crepe è che ciò che è crepato non si è ancora demolito.

E quindi può essere riparato.

Mi viene in mente che finché c’è crepa, c’è speranza.

Una signora mi guarda strano quando si accorge che ho un sorriso scemo mentre spazzo.

Con questa tramontana mi si sono pure crepate le labbra.

Semplici domande

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Servizio da portantino.

Arriviamo puntuali alla chiesa, portiamo dentro il feretro e lo posiamo piano sul carrello d’acciaio. Prendiamo i fiori e li sistemiamo intorno alla cassa.

Il cuore fatto con le rose bianche lo mettiamo sul coperchio, appena sopra alla composizione principale.

Chiudiamo il grande portone di legno e ci sciogliamo: prima di quaranta minuti la funzione non sarà finita.

Dopo un caffè torniamo nella piazza della chiesa e aspettiamo in piedi, abbastanza lontani dal nugolo di persone che è rimasto fuori.

– Ciao.

Mi volto di scatto per ricambiare il saluto e capire da chi viene. È un ragazzo del posto che è sempre presente ai funerali. Ha un problema cognitivo che lo fa sembrare un bimbo delle elementari.

Mi sento sempre in imbarazzo in questi casi. So perché: ho paura di non essere all’altezza, dire qualcosa di sbagliato. Di solito sono loro che mi mettono a mio agio.

– Oh, ciao – Risposta rigida: non sono naturale.

– Quando finisce la messa?

– Eh, di solito ci vuole quasi un’ora – Mi scopro a spolverarmi la giacca per distogliere lo sguardo.

– E dopo?

– Lo portiamo al cimitero – Adesso mi strofino un orecchio.

– Quello di paese?

– Sì – Comincio a sentirmi più rilassato, le risposte scorrono fluide.

– Quando è morto?

– Due notti fa.

– Dove va?

– Eh… come ti dicevo, proprio qua, al cimitero di paese.

– Ma dove va? – I suoi occhi sono piantati nei miei; sembra il gioco dei perché.

– Nel settore nuovo, a terra – Circoscrivo il campo delle risposte.

– Ma poi dove va?

– Dopo almeno dieci anni lo tolgono, e solo allora deciderà la famiglia.

Mi fissa. C’è qualcosa che mi sfugge.

– Non ho capito… dove va?

– Deve stare per tanto tempo a terra e poi vedremo. Non posso saperlo adesso – Sono di nuovo in imbarazzo.

– Anche mio padre è morto, però tanti anni fa – Continua a guardarmi come se quello che ha appena detto non gli procurasse nessuna emozione. In realtà è concentrato su quello che dico.

– Oh, mi spiace tanto.

– Ma il mio papà dov’è andato?

– Non so… ricordi se era nella cassa di legno soltanto, oppure c’era lo zinco?

– Cosa?

Lo guardo negli occhi. Sono puntati sui miei e non lasciano scampo; sono occhi di bambino e io gli sto facendo delle domande tecniche: mi sento un idiota.

– Lo hanno messo per terra oppure è nel muro?

– Io volevo sapere dov’è andato.

– Vorrei risponderti, credimi, ma devo sapere se è per ter…

– Io voglio sapere se è andato in paradiso.

Aspettava da me la  risposta alla domanda che l’uomo si fa da quando esiste, e l’avrebbe presa per buona.

A volte in termini dispregiativi queste persone vengono chiamate ritardate.

I ritardati siamo noi, che perdiamo di vista le cose più naturali; ci sentiamo sempre sotto esame, non riusciamo più a scendere dalla nostra supponenza e riconoscere un puro, da un curioso.

Siamo in ritardo sulla semplicità e forse non siamo più in tempo a sincronizzarci di nuovo.

Piccola grande donna

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La fossa è pronta.

L’escavatore è spento a ridosso del cumulo, i giunti idraulici fanno ancora rumore e sembra una bestia che aspetta la preda.

Il protagonista della nostra giornata è un giovane uomo: i verbi della sua vita resteranno coniugati al passato.

Quello che sappiamo delle persone che arrivano, lo leggiamo sui manifesti funebri appesi in città. Quando varcano l’ingresso del cimitero è sempre una sorpresa.

Di solito fissiamo il feretro, per non incrociare gli sguardi dei familiari. Il loro dolore lo possiamo già ascoltare, così preferiamo non doverlo anche leggere.

Ma quando nella prima fila c’è qualcuno che non supera il metro e mezzo, nasce una sorta d’istinto innato che ti obbliga a partecipare, a essere coinvolto, specialmente se il defunto è così giovane.

La bimba non può avere più di sette anni e cammina incredula, occhioni spalancati, guardando per terra. Una mano sta in quella della madre, l’altra stringe qualcosa.

Caliamo la cassa e aspettiamo che il parroco faccia il suo mestiere.

La gente parla; tra i discorsi ne filtra uno:

– Poverina, è così piccina che non sa nemmeno cos’è la morte.

Poi tocca a noi.

Ci avviciniamo alle due estremità del cumulo di terra, dove abbiamo infilato le pale: – Possiamo procedere? – Chiediamo.

La bimba alza la testa a guardare la madre; le scuote la mano e lei sembra tornare: – Aspettate, per favore. La bambina voleva mettere una cosa sopra…

Sempre per la mano si avvicinano tutt’e due.

La piccola lancia qualcosa che cade laggiù, sopra al tappo.

Guardo.

Il mondo si dissolve e vedo soltanto quel piccolo oggetto caduto sulla bara.

E’ di Pyssla.

Le usa anche mia figlia.

Sono quei piccoli cilindretti colorati, usati per costruire immagini o parole, sopra piccole basi; vanno coperte con carta da forno e stirate. I cilindri diventano morbidi e si schiacciano quel tanto che basta per rimanere tutti attaccati insieme.

Come gli affetti.

Quei cilindretti sono un messaggio scritto.

Da sopra si legge alla rovescia.

“ENEB OILGOV IT”.

Mi si piegano le ginocchia quando penso che l’importante è che si legga di sotto.

“TI VOGLIO BENE”.

Forse i bambini non comprendono la morte, ma sanno interpretarla benissimo.

Casa di riposo

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Siamo gli unici così eleganti.

Anzi no, c’è un signore che va in giro, senza meta. Sembra uscito da un libro dell’800 vittoriano.

Il personale ci vede passare e sorride, mentre gli anziani guardano cupi per poi tornare alle loro attività; qualcuno ci chiede se andiamo a un matrimonio e ride, cinico.

Passiamo velocemente dalla grande porta del refettorio, per non turbare la loro giornata.

Arriva una zaffata di pipì e disinfettante.

La direttrice ha già tutti i documenti: possiamo procedere alla chiusura del feretro.

Saliamo le scale ricoperte di moquette rossa, fissata a terra da piccoli tubicini dorati. Qualcuno manca e il tessuto si è sollevato. Picchio sulla spalla del collega che mi sta davanti, glielo indico con un gesto del mento. Lui capisce.

Quando scendiamo, dovremo stare attenti a non inciampare.

La piccola stanza adibita a commiato è completamente bianca: ha un crocifisso di metallo invecchiato, o vecchio per davvero, una fila di sedie azzurre e un tavolino bianco.

Ci appoggio la valigetta.

L’impresario parla coi familiari: ci aspetteranno in chiesa.

Appena se ne vanno si avvicina uno degli ospiti e si guarda attorno come se fosse in incognito.

Entrando si prende due lembi della camicia, ci guarda e affranto li tira, come a scusarsi per non essere abbastanza elegante.

Allunga un braccio indicando la cassa.

– Sono il suo migliore amico – Ci dice – Non posso venire al funerale.

La parola si conclude soffocata da un singhiozzo.

Ci guarda languido – Lui capirà: a me in chiesa mi ci hanno visto solo per il battesimo.

Dice che da quando si sono conosciuti, lì dentro, si sono fatti forza, che erano due campioni di briscola e che insieme sono riusciti a trascorrere delle giornate quasi normali.

Lo indica di nuovo.

– Due anni fa mi aveva anche invitato a casa sua per Natale, il figlio aveva accettato ma… – Ride e piange insieme, prende un fazzoletto e si asciuga – Gli ho pisciato sulla sedia, e allora per Pasqua dovette inventarsi una scusa… ma io lo capisco.

Controlla che non arrivi nessuno dal corridoio, prende un mazzo di carte dai pantaloni e lo mette nella cassa.

– Non lo dite all’inserviente, che sennò si arrabbia: qui i mazzi sono contati.

Gli facciamo un gesto di complicità, lui ricambia con una strizzata d’occhio che gli piega il viso fino al collo e se ne va sorridente.

Chiudiamo e portiamo fuori il feretro.

Ritroviamo il migliore amico appena fuori dall’uscio; mette la mano sul legno come se fosse la spalla del compare.

– Eh, adesso soltanto i solitari mi toccherà fare, qui non ci capisce niente nessuno di carte –

Ci guarda.

– Io in chiesa non c’entro neanche morto: lui capirà.

Non ammette neppure a sé stesso che non potrebbe portarcelo nessuno in chiesa, senza permesso.

Se ne va e sorridendo, mastica tra i baffi una bestemmia.

Il giardino segreto

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Ci sono posti segreti, nascosti alle intenzioni anziché agli occhi.

Ce n’è uno in ogni comune.

Lo puoi trovare accanto al cimitero, coperto di ulivi, di prati all’inglese, o di viti, che vecchi contadini si ostinano a coltivare anche se quella terra non gli appartiene più.

Può essere anche altrove, vicino a un ruscello, coperto da macchie di bosco selvaggio e funghi, oppure rivelarsi arido e roccioso se la terra di quel posto è poca e avara.

Vedrai caprioli saltarci nella stagione degli amori, oppure piccole lepri allontanarsi dall’odore di una volpe o dal fucile di un bracconiere.

Possono variare in grandezza e dimensione e puoi passeggiarci sopra con lo spirito leggero e spensierato, o preso dal tumulto di una passione.

Non troverai nessuna mappa a indicarli e rari sono i carteggi che ne parlano.

Non metterti alla loro ricerca, sarebbe ardua.

Oggi ne ho visto uno e l’ho fissato per interminabili istanti, preso dall’inquietudine del mistero della vita. Dall’ossessione che in ogni luogo c’è questo mostro che dorme.

E il risveglio è delirio.

Perché i paesi che scoprono questi luoghi sono colti da sventura.

Mi piace chiamarli giardini segreti.

I comuni devono catalogarli con altro nome: spazi adibiti a sepoltura per calamità naturali.

Departures

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Chi lavora nel mio settore ha un pubblico di… nicchia.

Quando tra amici parliamo dei vantaggi che possono derivare dalla nostra professione, sono quello che non potrà mai dire agli altri:

– Oh, se hai bisogno chiamami, che ti tratto bene.

Quando mi presento a qualcuno e arriva il momento di parlare del lavoro che faccio, di solito il primo commento è:

– Non c’è mica nulla di male, è un mestiere come un altro.

Io lo so, è lui che deve convincersi.

Anche sull’intrattenimento non stiamo messi bene. Al limite posso trovare qualche documentario sul culto dei morti nella storia dell’uomo.

Ecco perché sono grato a un’amica per avermi segnalato un film giapponese che non conoscevo, tutto incentrato su un aspetto dell’attività del necroforo: quello della vestizione.

Si intitola Departures, è del 2008, avevo iniziato da poco a fare questo mestiere.

Il protagonista rimane senza lavoro e l’unica cosa che gli capita di fare è l’operatore funebre.

Esattamente quello che è accaduto a me.

Così come è accadudo anche a me di capire pian piano, che un lavoro iniziato per caso diventa un compito da svolgere con orgoglio, appena scopri il suo senso profondo.

Nel film, durante una passeggiata lungo un torrente, il padre del protagonista scambia con lui un sasso. E’ un messaggio che vuol dire: Tu mi trasmetti questo.

Il senso di quella pietra sta nella sua forma, non nella dimensione. E non c’è n’è una che vada bene o una sbagliata: qualsiasi forma è corretta. Cambia solo il motivo per cui i personaggi ne scelgono una in particolare.

Ogni persona che ho salutato dietro quel tappo di legno che si chiudeva, mi ha lasciato a memoria la sua forma, che non è necessariamente fisica, ma qualcosa di diverso…

Quella cosa è una storia.

Una storia immaginaria.

Perché è inconcepibile avere a che fare con una persona senza almeno provare a immaginare la sua storia.

Questo lavoro trova il senso più profondo quando ti lasci travolgere dalle sensazioni.

Capisci cosa fai davvero, quando ti accorgi che l’ultima cosa che si spegne nella tua testa prima di addormentarti, sono gli occhi chiusi che hai visto quel giorno.

E solo immaginarne il colore ti aiuta a dormire.

Corpi lontani

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Entro nella stanza da letto con passi costretti che uno pesta l’altro e lo cerco piano con gli occhi.

Il dolore alla mano è perché stringo la maniglia d’acciaio della valigetta per la vestizione. Me ne accorgo quando lascio la presa e il pollice avverte il solco sulle dita.

Sul letto c’è un uomo in completo intimo.

Morto.

Quando ero piccolo mio fratello ebbe una grave crisi asmatica.

Per mesi prima di mettermi a dormire passavo un tempo indefinito a osservare che respirasse, che il suo addome si sollevasse ritmico e senza spasmi. Ricordo che avvertivo netta l’immobilità della stanza e degli oggetti dentro il mio campo visivo.

Un corpo vivo che dorme zampilla di vita: può esserci il guizzo involontario di un muscolo, un rumore nell’addome, un respiro.

La morte invece è assenza.

In questa stanza i miei occhi rifiutano quel corpo immobile e fissarlo mi dà l’illusione che siano gli oggetti a essere vivi.

Una tapparella mossa dal vento, lo scricchiolio del parquet, le lancette di un vecchio orologio, il ronzio del ventilatore…

Il mio cervello rigetta quell’immagine e provo un senso di vertigine, come se tutto quello che c’è intorno andasse pian piano in dissolvenza.

Ma è il corpo che sembra allontanarsi.

– Cominciamo? – La voce del collega anziano mi richiama alla realtà; tiene sulle labbra il sorriso di chi la sa lunga…

Sono trascorsi quasi dieci anni da quel momento, ma le stanze continuano a fare rumore.