Lenzuola e vecchi merletti.

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Stiamo liberando alcuni sepolcreti che in seguito verranno demoliti.

Arriva una vecchina, piccola e grinzosa, con un sorriso così delicato e sincero che mette di buon umore solo guardarla.

Si avvicina e incrocia le braccia sul grembo. Le indichiamo la prossima tomba da liberare – E’ una familiare?

– Era mio marito – dice facendo seguire un istante di silenzio pieno di ricordi che le accentuano il sorriso – Siamo stati insieme per venticinque anni. Mi ha lasciato qualche giorno prima di poter festeggiare le nozze d’argento.

La guardiamo in silenzio perché nei nostri silenzi loro sentono partecipazione; hanno bisogno di venire ascoltati, non compatiti.

Continuiamo a fare l’operazione di apertura del feretro e al momento di togliere il coperchio di zinco, l’ultima barriera che separa il mondo dei vivi da quello dei morti, la signora torna da noi.

– Aspettate per favore – Apre la borsa che tiene a tracolla e ne estrae un piccolo fagotto bianco.

– Non posso permettermi un ossario murato – Dice mantenendo sorriso e dignità – Se fosse consumato lo dovrete mettere nell’ossario comune, però… – Ci allunga il piccolo fagotto da cui sbuca un merletto – vorrei che prima di infilarlo in quel posto tetro, metteste le ossa qui dentro, così rimarrà tutto insieme.

E’ una federa.

Ci capitano spesso richieste di questo tipo, per impedire fino all’ultimo di disperdere un nostro caro tra mille altri.

La salma è pronta per essere ridotta. Disponiamo le ossa nella federa come se componessimo un piccolo mosaico. Lo posiamo nell’ossario comune.

Il sorriso della signora si accentua ancora e si stringe nelle spalle, come se abbracciasse un ricordo e bisbiglia: – Tesoro mio, ne ha viste quella federa di cose… – Sulle piccole guance due rossetti la colorano di una tenerezza infinita, che vorrei togliermi i guanti e riempire quell’abbraccio col mio.

 

 

 

Era bellissima

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Siamo impegnati nell’estumulazione di alcuni corpi dai loro loculi. E’ stata una giornata complicata perchè abbiamo trovato dei corpi mummificati. Di alcuni, i rispettivi familiari hanno deciso per il riseppellimento quinquennale; un paio hanno optato per la cremazione.

L’ultimo intervento del pomeriggio però è stato indimenticabile.

Abbiamo tolto il marmo. La donna che raffigura è lì dentro da oltre trent’anni. Appena smurati i mattoni che sigillano il loculo ci siamo trovati di fronte a un feretro praticamente intatto.

Solitamente sul legno attecchisce la muffa, oppure si sfoglia la vernice. Quella cassa invece, togliendo un po’ di opacizzazione dovuta forse all’umidità, sembrava nuova.

Inseriamo un vassoio d’acciaio facendolo scorrere lungo tutta la base del feretro, ci faciliterà l’estrazione. Notiamo che la cassa è sigillata da tre fasce di alluminio.

All’epoca della tumulazione era obbligatorio metterle per i defunti che arrivavano da fuori comune.

I familiari ci dicono che era morta in un ospedale fuori regione; è probabile che avesse anche ricevuto una iniezione di mantenimento. Ci guardiamo col mio collega: siamo quasi certi che troveremo un corpo non consumato. Nel qual caso dovremo seguire la procedura per seppellirla nella terra.

Togliamo il coperchio di legno, apriamo quello di zinco (nei loculi, nei sepolcreti e nelle tombe di famiglia è obbligatorio che il corpo sia prima deposto in un feretro sigillato di questo materiale). All’interno il corpo è avvolto in un telo di plastica.

Oggi esistono materiali biodegradabili, ma un tempo venivano usati teli di quel tipo per effettuare lunghi viaggi per evitare che ci fosse dispersione di eventuali liquidi.

Con mille precauzioni lo svolgo lentamente ma l’interno è asciutto.

Invece quella donna si è mantenuta intatta, ad eccezione di un pallore giallognolo della pelle.

E’ bellissima.

Non mi era mai capitato di trovare la “bellezza” dentro una cassa. In qualunque condizione si trovi un cadavere, il tempo lì dentro demolisce il suo aspetto.

Da sotto le palpebre si nota ancora il rigonfiamento dei bulbi oculari (un tessuto che si consuma velocemente), il naso è intero e ha addirittura le rughe sulle guance.

Per la prima volta ho provato la sensazione che quel corpo non fosse morto ma dormisse semplicemente e che da un momento all’altro potesse alzarsi e andarsene coi suoi piedi.

La figlia si affaccia. Appena vede sua madre i suoi occhi si gonfiano di lacrime. Si mette una mano davanti alla bocca, incredula.

– Oddio… è rimasta uguale!

Il mio nodo alla gola viene inghiottito, come le storie che ci raccontano le persone con cui ho a che fare in questi luoghi, che mi arricchiscono e danno un senso a questo lavoro.

Storie di vite

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I defunti ci parlano.

Spesso questa frase è riferita al suo significato soprannaturale, soprattutto nella fiction, al cinema o sui libri.

Nella realtà i defunti ci parlano davvero; un linguaggio muto, espresso dai loro familiari, che accompagnano l’addio del corpo di un loro congiunto, depositando qualcosa che ha significato molto in vita.

Questi oggetti tornano alla luce con i loro accompagnatori, dopo un viaggio che dura, a volte, decine di anni.

Un viaggio allucinante, immobile eppure mutevole, durante il quale accadono eventi chimici così sorprendenti, da essere paragonati solo a quelli che avvengono durante la nascita.

Gli oggetti assistono passivi a questi cambiamenti, cambiando a sua volta per le sostanze con cui vengono in contatto. E si muovono, a causa del corpo che si dissolve ma quando tornano alla luce raccontano una storia.

Al momento di un’esumazione questi oggetti sono il ponte che collega il presente al passato, ai momenti intimi che hanno rappresentato, alla quotidianità che hanno descritto.

E i familiari  si stupiscono della presenza di un cappello o un accendino, una bottiglietta o un libro, un disco o una coperta ripiegata sul petto; come se il tempo trascorso dalla chiusura di quel feretro, fosse una distanza reale, un viaggio fisico verso una destinazione identica, che può durare una vita intera e durante il quale un oggetto può anche essere smarrito.

E invece resta lì, fedele come un cane, puntuale e sorprendente a rammentare a cosa è servito, a cosa ha significato per quei resti, quando erano vivi.

Perchè alla fine, sia per i vivi che per i morti, l’unico viaggio reale è quello della memoria.

 

“Non è fatto”

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Siamo impegnati nell’estumulazione ordinaria di alcuni loculi. E’ stata una giornata complicata perché abbiamo trovato dei corpi mummificati. Di alcuni i rispettivi familiari hanno deciso per il riseppellimento quinquennale; un paio hanno optato per la cremazione.

Per comunicare tra di noi la possibilità o meno di ridurre dei resti umani, utilizziamo la formula “E’ fatto”, “Non è fatto”. Poi il responsabile riferisce ai cari presenti la notizia, con formule più consone.

L’ultimo intervento del pomeriggio è stato indimenticabile.

Abbiamo tolto il marmo. La donna che raffigura è lì dentro da oltre trent’anni. Appena smurati i mattoni che sigillano il loculo, ci siamo trovati di fronte a un feretro praticamente intatto.

Solitamente sulla cassa attecchisce la muffa, si sfoglia la vernice, oppure il legno è così logoro da sembrare sughero. Quella cassa invece, togliendo un po’ di opacizzazione dovuta forse all’umidità, sembra appena messa.

Inseriamo il vassoio d’acciaio su cui poserà la cassa per l’intera operazione e notiamo che è sigillata da tre fasce di alluminio. All’epoca della tumulazione era obbligatorio metterle per i defunti che arrivavano da fuori comune.

I familiari ci confermano che la donna era morta in un ospedale fuori zona.

Togliamo il coperchio di legno, apriamo quello di zinco (nei loculi, nei sepolcreti e nelle tombe di famiglia è obbligatorio che il corpo sia prima deposto in un feretro sigillato di questo materiale e quindi nella cassa di legno).

All’interno il corpo è avvolto in un telo di plastica. Oggi esistono materiali biodegradabili, ma un tempo per effettuare lunghi viaggi e evitare che ci fosse dispersione di liquidi, veniva usava la comune celluloide trasparente.

Nonostante il mio paio di guanti belli spessi, sollevo i lembi del telo con due sole dita, lentamente. Mi aspetto l’ennesima mummia, invece il corpo della donna si è  mantenuta in maniera incredibile, ad eccezione di un pallore giallognolo del viso.

Era piuttosto anziana al momento della morte ma nel tempo trascorso ha conservato le rughe del volto, le labbra (mentre di solito nei corpi mummificati sono consumate) e sotto le palpebre chiuse si nota ancora la sfera del bulbo oculare. E’ un tessuto talmente molle che si consuma precocemente nei primi processi di decomposizione. Infatti, nei corpi non mineralizzati, di solito le palpebre ripiegano all’interno dell’orbita, su un occhio probabilmente atrofizzato.

Non avevo mai visto niente di simile. Per la prima volta ho provato la reale sensazione che quel corpo non fosse morto ma dormisse semplicemente e che da un momento all’altro potesse alzarsi e andarsene coi suoi piedi.

Può darsi che al momento della morte abbiano effettuato sul corpo della donna un’iniezione di mantenimento che, in combinazione con la chiusura nella plastica e la sigillatura nello zinco, ha permesso ai tessuti di rimanere intatti.

Sono così stupito da non accorgermi che nel frattempo un familiare si è avvicinato: “Come va?”

Mi volto e mi scappa un “Non è fatto”.

Arrossisco un po’. La prossima volta sarò più formale.

Promesso.

Oltre la morte

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Avvertenza: Non è un post soprannaturale

Sembra che le orecchie siano una delle poche parti del corpo umano (se non l’unica), che crescono finché l’individuo ha vita.

Però ce ne sono alcune che continuano  a farlo anche dopo la morte.

Tessuti come quelli delle unghie e dei capelli, una volta sopraggiunta la fine, proseguono la loro vita per un periodo variabile, comunque breve,

Però devono esserci le eccezioni.

In alcune, rare occasioni, durante esumazioni o estumulazioni (soprattutto quest’ultime, perché non c’è la terra consumare i tessuti), di fronte a un corpo ancora integro, ho assistito alla sorpresa dei familiari nel trovare le unghie o i capelli del proprio caro, estremamente più lunghi, rispetto al momento della chiusura del feretro.

Naturalmente ignoro come fosse lo stato di questi tessuti al momento della morte e non posso contare sulla memoria dei parenti; però una volta sono rimasto stupito, nel constatare che le unghie del defunto erano veramente lunghe e trasandate, come se per uno, due mesi nessuno le avesse curate. Un fatto strano, perchè solitamente la cura del corpo è uno dei passaggi della vestizione del defunto.

Sono certo che questi fattori come le unghie o i capelli eccessivamente lunghi, stato di conservazione oltre la norma, ecc… abbiano contribuito, in un passato remoto, quando la scienza ignorava il procedimento di decomposizione o conservazione dei tessuti; a creare miti come il vampiro.

Questioni di decomposizione

Il segreto per una corretta decomposizione?

Non esiste, mi spiace.

Se a qualcuno è venuto in mente di curare il proprio corpo anche dopo il passaggio su questa terra, sono desolato, non ci sono rimedi efficaci.

Puoi fare fitness, yoga, vivere in poltrona, mangiare vegano o spolverare vassoi di salsicce… Quando finiamo lì sotto (là dentro, là fuori o in qualunque posto capiti di trovarsi), non è possibile assicurarsi di non fare brutte sorprese ai nostri parenti.

Ci sono due modi per stabilire le modalità di decomposizione di un corpo: lo studio teorico e l’atto pratico.

Dal primo scaturisce tutta quella letteratura scientifica che serve per stabilire con oggettiva esattezza gli stadi successivi dì decomposizione e alimenta discipline mediche, criminologiche e letterarie.
Il secondo non è una scienza esatta ma deriva dall’esperienza diretta di chi, per lavoro, ha a che fare con cadaveri che da anni giacciono in un feretro.

Io rappresento il secondo caso.

La mia sensazione è che nel disfacimento fisiologico di un corpo, sopraggiungano eventi soggettivi tali, da far insorgere tutta una serie di problematiche che portano a due situazioni opposte: la mummificazione dei tessuti, o la mineralizzazione precoce.

Una differenza alla fonte la fornisce il luogo dove viene deposto il feretro: nella terra o nel loculo.

Da quel momento tutto può succedere. Entrano in gioco fattori come l’umidità, le infiltrazioni d’acqua, il tipo di terra (più o meno ricca, dipende da quanto tempo accoglie spoglie mortali), resistenza o meno del coperchio del feretro alla spinta del terreno (se cede nascono tutta una serie di ipotesi), la presenza di alberi (che arricchiscono il terreno).

Per quel che riguarda la mia esperienza, in presenza di corpi non decomposti, nei loculi ci troviamo di fronte a tessuti asciutti, nella terra solitamente molli.

Ci sono le eccezioni.

Una delle precauzioni che un’impresa funebre prende sempre, è impedire che eventuali liquidi possano fuoriuscire dal feretro, prima che esso sia deposto. Nella seconda metà degli anni ’90 cominciarono a diffondersi dei materassini biodegradabili, che assicuravano una tenuta ottimale e che si scioglievano dopo qualche tempo, permettendo ai liquidi di fuoriuscire.

Prima di allora venivano utilizzati teli di plastica: avevano una grande resistenza ma giungevano intatti al momento dell’esumazione.

In questi casi tutto quello che un corpo produce viene trattenuto, impedendo il processo naturale di deterioramento biologico e creando casi sempre diversi.

Spesso i parenti dei defunti che non si sono consumati, raccontano che il loro caro aveva effettuato cure lunghe e pesanti. Talvolta ci sono medici tra i parenti, secondo i quali, sono i cibi pieni di conservanti che mangiamo a farci mantenere intatti.

Sono soltanto teorie.

Immagino basti che un liquido non ottemperi alla sua funzione e si modifichi il suo PH, per condizionare i successivi stadi di decomposizione.

Le variabili e le varianti sono così numerose da rendere impossibile ogni congettura su quale stato troveremo un corpo.

Tale e quale

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Stiamo facendo delle estumulazioni, togliamo cioè alcune casse dai loculi.
Il familiare pesticcia nei paraggi senza mettersi mai nel mezzo alle nostre operazioni. Piano piano rompe il ghiaccio con domande sul nostro mestiere e ci osserva con sguardo assente mentre togliamo i vecchi mattoni.

Ha gli occhi tristi.

Non è normale avere occhi tristi in queste occasioni. Solitamente i parenti mostrano impazienza, curiosità, nostalgia. Chi ha gli occhi tristi di solito ci racconta una storia altrettanto triste, come se la morte fosse giunta senza che un ciclo fosse chiuso.

Il familiare rievoca la vita di suo padre, che tornando in bicicletta dal lavoro fu travolto da un’auto, rimanendo ucciso sul colpo.

Era il 1967.

Aveva 32 anni, Il figlio 7 e stava per rivedere suo padre a 55.

La sua storia era così sincera e dettagliata, che mentre raccontava immaginavo la scena come un film in bianco e nero, ricollegando quel fatto ai volti del capolavoro “Ladri di biciclette”.

Quando arriva il momento di aprire la cassa rimango di stucco.

Guardo la foto sul marmo e mi stupisco di quanto il defunto sia ancora somigliante a quella.

Non capita facilmente. Una salma non si riconosce nella foto esposta, perché l’immagine può essere antecedente la morte di anni o anche solo per il fatto che la faccia di solito è consumata.

L’uomo è mummificato: impossibile fare la riduzione. Il figlio si avvicina e rimane in silenzio. Noi con la scusa di riordinare gli attrezzi lo lasciamo per un po’ da solo coi suoi ricordi.

Quando ci avviciniamo per spostare la salma mi accorgo che il volto dell’uomo è praticamente intatto. I capelli sono al loro posto, il volto è diventato scuro ma totalmente integro e riconoscibile

Sembra il negativo della foto commemorativa fissata sul marmo.

Chiediamo al figlio se possiamo chiudere la scatola biodegradabile con cui il padre sarà seppellito a terra per i prossimi 5 anni.

Dice sì, ci saluta poi guarda di nuovo verso la scatola.

– Ciao babbo.

Il rito dell’esumazione

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Oggi parlerò di come faccio un’esumazione.

Di come la faccio io intendo.

Sicuramente ci saranno metodi migliori; a me hanno insegnato questo. Ne scriverò mantenendo le premesse con cui ho sempre tenuto questo blog: rispettare chi non c’è più.

E’ esattamente il presupposto necessario per effettuare questo tipo di operazioni. In fin dei conti abbiamo davanti delle persone che stanno a guardare noi, che mettiamo i resti di un loro caro estinto, dentro una scatola di ferro.

Se capitasse a me vorrei massimo rispetto.

Inizierò a raccontare da quando la cassa è tornata alla luce, dopo il lavoro dell’escavatore e della pala come ho spiegato in questo post.

Appena il coperchio è libero dalla terra cerco di sollevarlo a mano, solitamente si apre senza problemi. In caso contrario faccio leva con qualche attrezzo.

Comincio a ripulire la superficie superiore della cassa da eventuali infiltrazioni di terra.

Mi aiuto scalzando le estremità dell’imbottitura che avvolge la salma, così da far scorrere la terra all’esterno dell’involucro di stoffa. Se questo non basta viene in aiuto il velo in raso, che di solito ricopre il corpo nella sua lunghezza. In assenza di questi tessuti, devo liberare il corpo con i guanti o con una mestola, tipo come fanno gli archeologi quando trovano un reperto.

Dopo aver liberato l’area di lavoro, avvicino la cassetta di zinco che accoglierà i resti.

Solo la testa e le mani sono esposte, il resto è dentro le logori vesti che dopo tanti anni hanno assunto l’aspetto di un sudario.

Per prima cosa cerco le ossa delle mani. Sono le parti più piccole. Mentre i piedi sono raccolti nelle scarpe o nelle calze, gli arti superiori possono spargersi, rendendo più lungo il loro recupero specie se nella cassa c’è del fango. Tolgo anche l’ulna e il radio dalle maniche.

Ripartendo dall’alto ripongo il cranio, che è la parte più ingombrante; insieme ad altre ossa più lunghe vanno posizionate in modo che lo spazio nella cassetta sia sufficiente ad accogliere tutto.

Passo alle vertebre cervicali che sistemo in basso, dietro al cranio; quindi le clavicole, l’omero, le costole, lo sterno (che talvolta è quasi totalmente consumato) e concludo togliendo le vertebre rimanenti.

Proseguo con le ossa del bacino, che cerco di mettere ai lati lunghi della cassetta per lasciare spazio alle successive sei ossa: femore, tibia e perone. E’ per quelle che bisogna gestire lo spazio; si rischia di non riuscire a chiudere il coperchio e dover risistemare l’interno. Una cosa che di certo i familiari non gradiscono.

Infine raccolgo le rotule.

Il recupero delle ossa dei piedi è quasi sempre agevole. Come già detto sono all’interno di calzature e quindi basta svolgere il tessuto all’interno dell’ossarietto di zinco.

La velocità di queste operazioni dipende dal tipo di abito indossato dalla salma. Abbiamo a che fare con pantaloni o calze di nylon (talvolta indistruttibili!), camicie e giacche, mantelli o scialli, intimo di ogni genere che mantiene la sua resistenza anche dopo tanti anni.

Una curiosità.

Se al momento di togliere il coperchio i familiari vedono il cranio consumato, tirano un respiro di sollievo e cominciano a esprimere consensi sulla buona sorte occorsa al loro defunto: danno per scontato che il processo di decomposizione sia completo.

In realtà potrebbe non essere così. Molto spesso ci sono porzioni di corpo non consumate. Parti come il busto e il bacino necessitano di più tempo per mineralizzarsi. Capita anche che ci siano uno più arti mummificati e quindi non è possibile effettuare la riduzione.

E’ importante smorzare gli animi fin da subito e prendersi il tempo necessario per accertarsi che il lavoro sia possibile da fare per evitare successive delusioni.

 

 

Lo stupore della morte

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Con un grimaldello faccio leva tra le vecchie tavole serrate, alla maniera di un ladro, tanto solenne è il luogo che vado a violare.

chiodi lanciano un sinistro scricchiolio finché non cedono e lasciano uno spiraglio abbastanza largo da infilare le dita e fare forza con le mani.

Il coperchio si muove, si libera, si alza.

Non so cosa troverò, ogni volta è differente, perché i defunti non sono mai uguali; mantengono anche nella morte le loro peculiarità.

Ma c’è un fattore che contraddistingue ognuno di loro, indipendentemente da come sono vestiti, dal genere o dallo stato di conservazione: nella stragrande maggioranza dei casi la carne della testa e del collo è consumata, lasciando a vista il teschio e i primi dischi della spina dorsale.

E in tutti questi casi la mandibola è completamente abbassata, come quando si apre la bocca.

Come quando si prova un forte stupore, lo stupore della morte.

Vermi

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Chi non ha sentito dire almeno una volta nella vita che “siamo cibo per vermi”?

E’ un’affermazione cinica, spietata, priva di speranza ma è piuttosto diffusa e abusata in molti film o libri, quando si tratta di fare riferimento all’inevitabile destino di ogni essere vivente.

E poi ci si può imbattere nel suo senso più letterale.

Si deve esumare un piccolo settore circondato da un muretto di mattoni. Lì dentro lo scavatore non riesce a muoversi come al solito: anziché mettersi di fronte alla tomba, resta di lato.

La ruspa comincia a togliere la terra gradualmente, dal centro del sepolcro verso il “piede” della cassa.

Compare il coperchio, ancora intatto. Per facilitarmi il compito l’operaio cerca di liberarlo anche sulla parte alta, ma alla seconda bennata il tappo di legno frana, di colpo; la tavola centrale (delle tre che lo compongono) cede alla spinta infilandosi dentro al feretro.

Alzo un braccio, segno convenzionale per bloccarlo e subentrargli nello scavo con la pala.

Scendo nella piccola fossa tenendo i piedi abbastanza larghi da non forzare sulle assi smosse del coperchio. Le tolgo, poi scavo quanta più terra possibile dall’interno della cassa usando una mestola da muratore, piccola abbastanza per evitare di smuovere le ossa.

La terra sovrastante la testa è rimasta al suo posto, creando una piccola volta, una nicchia. Non posso toglierla; al primo tocco franerebbe tutto all’interno, rendendo ancora più difficoltoso il recupero dei resti.

Mi piego sulle ginocchia per cominciare l’operazione; intorno la pioggia ha reso il terreno morbido e scivoloso. Per recuperare la parte alta dello scheletro sono costretto a mettermi in ginocchio sulle assi laterali del feretro e piegarmi in avanti.

La mia tuta bianca alla “R.I.S.” è idrorepellente e non corro il rischio di bagnarmi i vestiti.

Ripongo il teschio nella cassetta di zinco, poi continuo il lavoro cercando un equilibrio più stabile. Vedo che i vestiti sono integri e cerco di sollevare la maglietta mantenendo dentro tutto il contenuto, per riversarlo nella scatola.

È lì che si trova la quantità più numerosa di ossa e se riesco nel mio intento faccio un piacere ai familiari; sono concentrati su quello che faccio e posso evitargli di vedere uscire da quelle vesti consunte, il posto dentro cui, oltre un decennio fa, batteva il cuore del padre.

Ci riesco. Mi riporto in posizione, il mio sguardo cade sul fondo del feretro: balzo in piedi allibito; il mio collega interviene pensando a un problema.

– Tutto bene – lo tranquillizzo – Ma qui sotto c’è qualche ospite imprevisto.

Migliaia di piccoli vermi rossi e arancioni si contorcono nel fango sottostante. Non avevo mai visto niente di simile. Era un brulicare incredibile, una stonatura: tutta quella vita in un letto di morte

Anche i familiari li vedono, provano disgusto e risentimento per la presenza di quelle creature insieme al corpo del padre.

In questi casi cerco sempre di rincuorare le persone.

– Potrebbe essere stata la sua fortuna – spiego loro – La presenza di questi animali rende la terra ricca di sali minerali, in questo modo la mineralizzazione – un modo carino per definire la decomposizione – avviene più velocemente.

Sì, effettivamente adesso sono più sollevati.

Finisco il lavoro iniziato mentre penso che forse sono apparso ridicolo agli occhi dei presenti; la maggior parte delle persone troverebbe normale imbattersi in un verme, mentre a farli sobbalzare sarebbero di certo i resti di un corpo umano.