Semplici domande

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Servizio da portantino.

Arriviamo puntuali alla chiesa, portiamo dentro il feretro e lo posiamo piano sul carrello d’acciaio. Prendiamo i fiori e li sistemiamo intorno alla cassa.

Il cuore fatto con le rose bianche lo mettiamo sul coperchio, appena sopra alla composizione principale.

Chiudiamo il grande portone di legno e ci sciogliamo: prima di quaranta minuti la funzione non sarà finita.

Dopo un caffè torniamo nella piazza della chiesa e aspettiamo in piedi, abbastanza lontani dal nugolo di persone che è rimasto fuori.

– Ciao.

Mi volto di scatto per ricambiare il saluto e capire da chi viene. È un ragazzo del posto che è sempre presente ai funerali. Ha un problema cognitivo che lo fa sembrare un bimbo delle elementari.

Mi sento sempre in imbarazzo in questi casi. So perché: ho paura di non essere all’altezza, dire qualcosa di sbagliato. Di solito sono loro che mi mettono a mio agio.

– Oh, ciao – Risposta rigida: non sono naturale.

– Quando finisce la messa?

– Eh, di solito ci vuole quasi un’ora – Mi scopro a spolverarmi la giacca per distogliere lo sguardo.

– E dopo?

– Lo portiamo al cimitero – Adesso mi strofino un orecchio.

– Quello di paese?

– Sì – Comincio a sentirmi più rilassato, le risposte scorrono fluide.

– Quando è morto?

– Due notti fa.

– Dove va?

– Eh… come ti dicevo, proprio qua, al cimitero di paese.

– Ma dove va? – I suoi occhi sono piantati nei miei; sembra il gioco dei perché.

– Nel settore nuovo, a terra – Circoscrivo il campo delle risposte.

– Ma poi dove va?

– Dopo almeno dieci anni lo tolgono, e solo allora deciderà la famiglia.

Mi fissa. C’è qualcosa che mi sfugge.

– Non ho capito… dove va?

– Deve stare per tanto tempo a terra e poi vedremo. Non posso saperlo adesso – Sono di nuovo in imbarazzo.

– Anche mio padre è morto, però tanti anni fa – Continua a guardarmi come se quello che ha appena detto non gli procurasse nessuna emozione. In realtà è concentrato su quello che dico.

– Oh, mi spiace tanto.

– Ma il mio papà dov’è andato?

– Non so… ricordi se era nella cassa di legno soltanto, oppure c’era lo zinco?

– Cosa?

Lo guardo negli occhi. Sono puntati sui miei e non lasciano scampo; sono occhi di bambino e io gli sto facendo delle domande tecniche: mi sento un idiota.

– Lo hanno messo per terra oppure è nel muro?

– Io volevo sapere dov’è andato.

– Vorrei risponderti, credimi, ma devo sapere se è per ter…

– Io voglio sapere se è andato in paradiso.

Aspettava da me la  risposta alla domanda che l’uomo si fa da quando esiste, e l’avrebbe presa per buona.

A volte in termini dispregiativi queste persone vengono chiamate ritardate.

I ritardati siamo noi, che perdiamo di vista le cose più naturali; ci sentiamo sempre sotto esame, non riusciamo più a scendere dalla nostra supponenza e riconoscere un puro, da un curioso.

Siamo in ritardo sulla semplicità e forse non siamo più in tempo a sincronizzarci di nuovo.

Il giardino segreto

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Ci sono posti segreti, nascosti alle intenzioni anziché agli occhi.

Ce n’è uno in ogni comune.

Lo puoi trovare accanto al cimitero, coperto di ulivi, di prati all’inglese, o di viti, che vecchi contadini si ostinano a coltivare anche se quella terra non gli appartiene più.

Può essere anche altrove, vicino a un ruscello, coperto da macchie di bosco selvaggio e funghi, oppure rivelarsi arido e roccioso se la terra di quel posto è poca e avara.

Vedrai caprioli saltarci nella stagione degli amori, oppure piccole lepri allontanarsi dall’odore di una volpe o dal fucile di un bracconiere.

Possono variare in grandezza e dimensione e puoi passeggiarci sopra con lo spirito leggero e spensierato, o preso dal tumulto di una passione.

Non troverai nessuna mappa a indicarli e rari sono i carteggi che ne parlano.

Non metterti alla loro ricerca, sarebbe ardua.

Oggi ne ho visto uno e l’ho fissato per interminabili istanti, preso dall’inquietudine del mistero della vita. Dall’ossessione che in ogni luogo c’è questo mostro che dorme.

E il risveglio è delirio.

Perché i paesi che scoprono questi luoghi sono colti da sventura.

Mi piace chiamarli giardini segreti.

I comuni devono catalogarli con altro nome: spazi adibiti a sepoltura per calamità naturali.

Cinquanta

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Uno.

Mario faceva l’artigiano.

Due.

Aveva tre figli maschi ma nessuno era entrato nell’azienda di famiglia.

Tre.

Non glielo avrebbe mai detto ma era felice perché ognuno aveva trovato la sua strada.

Quattro.

Indipendentemente da lui.

Cinque.

Quando dovette chiudere la sua impresa, ringraziò il cielo di non aver lasciato i suoi ragazzi senza lavoro.

Dieci.

Sua moglie lo aveva sempre amato, dal follemente di quando erano fidanzati, al sei stato l’unico uomo della mia vita, sul letto di morte.

Quindici.

Quando era piccolo suo padre lo aveva picchiato una volta.

Ventisei.

Il suo orto era tenuto meglio di quello del vicino, tiè.

Trentadue.

Una volta aveva desiderato un’amica di famiglia e si era sentito sporco.

Quarantuno.

Intorno ai sessanta aveva perso la passione per la politica.

Cinquanta.

Adesso il coperchio non si vede più. Gettiamo la pala lontana quasi con rabbia, senza curarci che forse è un gesto brutto da vedere.

E’ il nostro sfogo. Ora ci penserà la ruspa.

Mario non esiste.

Noi necrofori siamo come le copertine in fondo al libro. Chiudiamo una storia dopo che qualcun altro ha già scritto la fine.

 

Il cimitero ebraico

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Tempo fa ho lavorato in un cimitero ebraico.
Non ci si può entrare a cuor leggero.

Le tombe lì dentro parlano.

L’atmosfera che si respira è austera e solenne, tutto è un simbolo, un richiamo alla storia, alla loro.
Forse è la consapevolezza che fa la differenza.
Ciò che risalta di più sono le tombe degli anziani, quelli che l’Olocausto l’hanno vissuto sulla propria pelle.
La maggior parte.

Non è aperto al pubblico, si deve suonare per entrare. Perché in passato quel luogo ha subito violazioni di ogni genere da parte dei vandali.

Ci si muove per i viali in punta di piedi, come per non disturbare il sonno eterno e quando incrociamo un familiare ci salutiamo con un gesto.

Le tombe sono perenni, ognuna ha la sua struttura ma i materiali usati sono gli stessi e così tutto assume un aspetto uniforme, come fosse un enorme monumento in continua mutazione.

Non c’è una lapide o una scultura che accenni a un bisogno di rivalsa oppure al rancore ma tutto è impostato a tramandare un messaggio di speranza, di pace, di memoria.

Durante la sepoltura i parenti si voltano verso Israele e intonano un canto o una preghiera; anche i defunti sono sepolti guardando in quella direzione.

Ma che tu sia un visitatore, un familiare o un operaio, c’è una tradizione che è importante da rispettare, a ogni costo.
Una sola.

Se osservi le tombe puoi notare che su ognuna ci sono dei sassolini.
Ce ne sono di colorati, di pietra oppure di vetro ma tutti hanno lo stesso significato. Bellissimo.

Ognuno di essi è un viaggio.

Ogni volta che un parente o un amico lontano passano per visitare una tomba, lasciano uno di quei sassi: è una testimonianza, un pellegrinaggio per tenere viva la memoria.

Ci sono tombe piene di piccole pietre e le hanno posate mani provenienti da tutto il mondo.

Non si possono rimuovere. Mai.
Perché servono per dire a chi arriverà dopo che è passato qualcuno: non importa chi, importa che.

Per ironia della sorte…

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L’ironia nel mio lavoro è sempre fuori luogo.

A meno che a farla non siano i diretti interessati (quelli vivi, intendo).

Però talvolta si presentano delle situazioni paradossali che strappano un sorriso alle persone che si trovano al cospetto del defunto.

Ho raccolto alcuni episodi che sono accaduti in mia presenza, in seguito ai quali neppure il dolore della morte ha impedito ai familiari di ridere di cuore o astrarsi totalmente dal dolore della perdita.

Polvere… sulla polvere.

Durante un servizio funebre (di quelli in cui vestiamo eleganti) siamo nell’abitazione del defunto per chiudere il feretro, quindi portiamo i fiori all’esterno e restiamo ad aspettare fuori dalla porta d’ingresso: deve arrivare il sacerdote a fare la benedizione. Capita assai spesso che qualche amico o parente alla lontana, si intrometta nel nostro lavoro o nelle faccende della famiglia che ci ha chiamato e voglia in tutti i modi rendersi utile.

Stavolta ce n’è uno che si è messo in testa di aprire l’anta della porta esterna, per farci uscire meglio con il feretro. Ma l’anta non vuole saperne di aprirsi. L’uomo è così determinato nell’intento che corre nel suo garage e torna con la borsa degli attrezzi. Mentre il prete da la sua benedizione finale, lui sbatte con martello e scalpello, coprendo tutti gli altri suoni comprese le preghiere, finché l’uscio non si apre scricchiolando.

La figlia del defunto si affaccia inviperita ma appena vede che sotto la piccola anta c’era un dito di sporco, tutto il dolore sparisce, corre a prendere detersivo e spugna, per pulire in tutta fretta. Durante l’operazione ripete, a mo’ di litanìa: – che figura, che vergogna! – Così che tutti i presenti si accorgono dello strato di polvere che altrimenti sarebbe rimasto inosservato ad eccezione, forse, di qualche vecchia comare del condominio.

Una caduta di … stile.

Altro funerale con il vestito elegante. Il figlio vuole che il prete benedica la salma prima della chiusura. È inverno e aspettiamo il sacerdote all’interno della grande stanza che la famiglia ha destinato a camera ardente. Non siamo più di dieci persone.

L’uomo di chiesa è in ritardo e i presenti cominciano a spazientirsi, finché non suona il campanello. Due di loro scendono per accoglierlo. Il prete di quel posto è un omone alto e robusto, piuttosto anziano. Dalla nostra posizione non vediamo la porta d’ingresso, prima della quale ci sono due rampe di scale da salire.

Sentiamo l’eco della vociona del sacerdote e quella dei familiari che parlano; sono ancora fuori dall’abitazione. Ad un tratto un mugugno interrompe la conversazione, la nipote che era scesa per le scale urla e subito dopo si sente uno schianto e un lamento di dolore. Altre due persone escono dalla stanza per accertarsi dell’accaduto.

Un paio di minuti dopo una di loro rientra col sorriso sotto i baffi: – E’ caduto il prete, è inciampato sul pianerottolo ma non si è fatto niente. E’ seduto su uno scalino, gli porto un bicchiere d’acqua.

Non finisce di parlare che la voce si distorce per trattenere uno sghignazzo: – Ha fatto un volo! – Esclama scuotendo la mano come in un saluto. I familiari ancora nella stanza cominciano prima a sogghignare, poi un paio di loro si lasciano andare in una risata liberatoria che coinvolge tutti i presenti.

L’uomo di casa, ancora sorridente, si avvicina al padre e lo carezza sul viso: – Scusaci papà, ma se da qualche parte davvero ci vedi, sono sicuro che ci perdonerai – e gli schiocca un bacio sulla fronte.

Noi cerchiamo di rimanere impassibili e sembra che ci riusciamo perché il figlio si scusa addirittura con noi per la sua reazione.

Brum.

Siamo al cimitero per un seppellimento.

Arriva il corteo funebre e dopo i rituali siamo pronti per calare il feretro nella fossa. Tra la folla si fa notare un bambino che non può avere più di due anni. Scorrazza dappertutto e la madre fatica a tenerlo.

Quando il mio collega sale sull’escavatore per ricoprire lo scavo la signora richiama l’attenzione del ragazzino: – Guarda tesoro, guarda come fanno questi signori a ricoprire la buca – Al che il piccolo si ferma ad osservare.

L’escavatore si accende con uno sbuffo nero che esce dallo scappamento.

Il bimbo sgrana gli occhi, si volta verso la mamma e le dice tutto impressionato: – Mamma! Tato brrum, cacca!

La tensione si stempera e i familiari abbracciano il piccolo celebrando la sua tenerezza, qualcuno ride, altri cominciano a chiacchierare.

Anche per noi adesso è più lieve concludere il lavoro.

 

“Non è fatto”

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Siamo impegnati nell’estumulazione ordinaria di alcuni loculi. E’ stata una giornata complicata perché abbiamo trovato dei corpi mummificati. Di alcuni i rispettivi familiari hanno deciso per il riseppellimento quinquennale; un paio hanno optato per la cremazione.

Per comunicare tra di noi la possibilità o meno di ridurre dei resti umani, utilizziamo la formula “E’ fatto”, “Non è fatto”. Poi il responsabile riferisce ai cari presenti la notizia, con formule più consone.

L’ultimo intervento del pomeriggio è stato indimenticabile.

Abbiamo tolto il marmo. La donna che raffigura è lì dentro da oltre trent’anni. Appena smurati i mattoni che sigillano il loculo, ci siamo trovati di fronte a un feretro praticamente intatto.

Solitamente sulla cassa attecchisce la muffa, si sfoglia la vernice, oppure il legno è così logoro da sembrare sughero. Quella cassa invece, togliendo un po’ di opacizzazione dovuta forse all’umidità, sembra appena messa.

Inseriamo il vassoio d’acciaio su cui poserà la cassa per l’intera operazione e notiamo che è sigillata da tre fasce di alluminio. All’epoca della tumulazione era obbligatorio metterle per i defunti che arrivavano da fuori comune.

I familiari ci confermano che la donna era morta in un ospedale fuori zona.

Togliamo il coperchio di legno, apriamo quello di zinco (nei loculi, nei sepolcreti e nelle tombe di famiglia è obbligatorio che il corpo sia prima deposto in un feretro sigillato di questo materiale e quindi nella cassa di legno).

All’interno il corpo è avvolto in un telo di plastica. Oggi esistono materiali biodegradabili, ma un tempo per effettuare lunghi viaggi e evitare che ci fosse dispersione di liquidi, veniva usava la comune celluloide trasparente.

Nonostante il mio paio di guanti belli spessi, sollevo i lembi del telo con due sole dita, lentamente. Mi aspetto l’ennesima mummia, invece il corpo della donna si è  mantenuta in maniera incredibile, ad eccezione di un pallore giallognolo del viso.

Era piuttosto anziana al momento della morte ma nel tempo trascorso ha conservato le rughe del volto, le labbra (mentre di solito nei corpi mummificati sono consumate) e sotto le palpebre chiuse si nota ancora la sfera del bulbo oculare. E’ un tessuto talmente molle che si consuma precocemente nei primi processi di decomposizione. Infatti, nei corpi non mineralizzati, di solito le palpebre ripiegano all’interno dell’orbita, su un occhio probabilmente atrofizzato.

Non avevo mai visto niente di simile. Per la prima volta ho provato la reale sensazione che quel corpo non fosse morto ma dormisse semplicemente e che da un momento all’altro potesse alzarsi e andarsene coi suoi piedi.

Può darsi che al momento della morte abbiano effettuato sul corpo della donna un’iniezione di mantenimento che, in combinazione con la chiusura nella plastica e la sigillatura nello zinco, ha permesso ai tessuti di rimanere intatti.

Sono così stupito da non accorgermi che nel frattempo un familiare si è avvicinato: “Come va?”

Mi volto e mi scappa un “Non è fatto”.

Arrossisco un po’. La prossima volta sarò più formale.

Promesso.

Oltre la morte

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Avvertenza: Non è un post soprannaturale

Sembra che le orecchie siano una delle poche parti del corpo umano (se non l’unica), che crescono finché l’individuo ha vita.

Però ce ne sono alcune che continuano  a farlo anche dopo la morte.

Tessuti come quelli delle unghie e dei capelli, una volta sopraggiunta la fine, proseguono la loro vita per un periodo variabile, comunque breve,

Però devono esserci le eccezioni.

In alcune, rare occasioni, durante esumazioni o estumulazioni (soprattutto quest’ultime, perché non c’è la terra consumare i tessuti), di fronte a un corpo ancora integro, ho assistito alla sorpresa dei familiari nel trovare le unghie o i capelli del proprio caro, estremamente più lunghi, rispetto al momento della chiusura del feretro.

Naturalmente ignoro come fosse lo stato di questi tessuti al momento della morte e non posso contare sulla memoria dei parenti; però una volta sono rimasto stupito, nel constatare che le unghie del defunto erano veramente lunghe e trasandate, come se per uno, due mesi nessuno le avesse curate. Un fatto strano, perchè solitamente la cura del corpo è uno dei passaggi della vestizione del defunto.

Sono certo che questi fattori come le unghie o i capelli eccessivamente lunghi, stato di conservazione oltre la norma, ecc… abbiano contribuito, in un passato remoto, quando la scienza ignorava il procedimento di decomposizione o conservazione dei tessuti; a creare miti come il vampiro.

Tale e quale

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Stiamo facendo delle estumulazioni, togliamo cioè alcune casse dai loculi.
Il familiare pesticcia nei paraggi senza mettersi mai nel mezzo alle nostre operazioni. Piano piano rompe il ghiaccio con domande sul nostro mestiere e ci osserva con sguardo assente mentre togliamo i vecchi mattoni.

Ha gli occhi tristi.

Non è normale avere occhi tristi in queste occasioni. Solitamente i parenti mostrano impazienza, curiosità, nostalgia. Chi ha gli occhi tristi di solito ci racconta una storia altrettanto triste, come se la morte fosse giunta senza che un ciclo fosse chiuso.

Il familiare rievoca la vita di suo padre, che tornando in bicicletta dal lavoro fu travolto da un’auto, rimanendo ucciso sul colpo.

Era il 1967.

Aveva 32 anni, Il figlio 7 e stava per rivedere suo padre a 55.

La sua storia era così sincera e dettagliata, che mentre raccontava immaginavo la scena come un film in bianco e nero, ricollegando quel fatto ai volti del capolavoro “Ladri di biciclette”.

Quando arriva il momento di aprire la cassa rimango di stucco.

Guardo la foto sul marmo e mi stupisco di quanto il defunto sia ancora somigliante a quella.

Non capita facilmente. Una salma non si riconosce nella foto esposta, perché l’immagine può essere antecedente la morte di anni o anche solo per il fatto che la faccia di solito è consumata.

L’uomo è mummificato: impossibile fare la riduzione. Il figlio si avvicina e rimane in silenzio. Noi con la scusa di riordinare gli attrezzi lo lasciamo per un po’ da solo coi suoi ricordi.

Quando ci avviciniamo per spostare la salma mi accorgo che il volto dell’uomo è praticamente intatto. I capelli sono al loro posto, il volto è diventato scuro ma totalmente integro e riconoscibile

Sembra il negativo della foto commemorativa fissata sul marmo.

Chiediamo al figlio se possiamo chiudere la scatola biodegradabile con cui il padre sarà seppellito a terra per i prossimi 5 anni.

Dice sì, ci saluta poi guarda di nuovo verso la scatola.

– Ciao babbo.

Il rito dell’esumazione

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Oggi parlerò di come faccio un’esumazione.

Di come la faccio io intendo.

Sicuramente ci saranno metodi migliori; a me hanno insegnato questo. Ne scriverò mantenendo le premesse con cui ho sempre tenuto questo blog: rispettare chi non c’è più.

E’ esattamente il presupposto necessario per effettuare questo tipo di operazioni. In fin dei conti abbiamo davanti delle persone che stanno a guardare noi, che mettiamo i resti di un loro caro estinto, dentro una scatola di ferro.

Se capitasse a me vorrei massimo rispetto.

Inizierò a raccontare da quando la cassa è tornata alla luce, dopo il lavoro dell’escavatore e della pala come ho spiegato in questo post.

Appena il coperchio è libero dalla terra cerco di sollevarlo a mano, solitamente si apre senza problemi. In caso contrario faccio leva con qualche attrezzo.

Comincio a ripulire la superficie superiore della cassa da eventuali infiltrazioni di terra.

Mi aiuto scalzando le estremità dell’imbottitura che avvolge la salma, così da far scorrere la terra all’esterno dell’involucro di stoffa. Se questo non basta viene in aiuto il velo in raso, che di solito ricopre il corpo nella sua lunghezza. In assenza di questi tessuti, devo liberare il corpo con i guanti o con una mestola, tipo come fanno gli archeologi quando trovano un reperto.

Dopo aver liberato l’area di lavoro, avvicino la cassetta di zinco che accoglierà i resti.

Solo la testa e le mani sono esposte, il resto è dentro le logori vesti che dopo tanti anni hanno assunto l’aspetto di un sudario.

Per prima cosa cerco le ossa delle mani. Sono le parti più piccole. Mentre i piedi sono raccolti nelle scarpe o nelle calze, gli arti superiori possono spargersi, rendendo più lungo il loro recupero specie se nella cassa c’è del fango. Tolgo anche l’ulna e il radio dalle maniche.

Ripartendo dall’alto ripongo il cranio, che è la parte più ingombrante; insieme ad altre ossa più lunghe vanno posizionate in modo che lo spazio nella cassetta sia sufficiente ad accogliere tutto.

Passo alle vertebre cervicali che sistemo in basso, dietro al cranio; quindi le clavicole, l’omero, le costole, lo sterno (che talvolta è quasi totalmente consumato) e concludo togliendo le vertebre rimanenti.

Proseguo con le ossa del bacino, che cerco di mettere ai lati lunghi della cassetta per lasciare spazio alle successive sei ossa: femore, tibia e perone. E’ per quelle che bisogna gestire lo spazio; si rischia di non riuscire a chiudere il coperchio e dover risistemare l’interno. Una cosa che di certo i familiari non gradiscono.

Infine raccolgo le rotule.

Il recupero delle ossa dei piedi è quasi sempre agevole. Come già detto sono all’interno di calzature e quindi basta svolgere il tessuto all’interno dell’ossarietto di zinco.

La velocità di queste operazioni dipende dal tipo di abito indossato dalla salma. Abbiamo a che fare con pantaloni o calze di nylon (talvolta indistruttibili!), camicie e giacche, mantelli o scialli, intimo di ogni genere che mantiene la sua resistenza anche dopo tanti anni.

Una curiosità.

Se al momento di togliere il coperchio i familiari vedono il cranio consumato, tirano un respiro di sollievo e cominciano a esprimere consensi sulla buona sorte occorsa al loro defunto: danno per scontato che il processo di decomposizione sia completo.

In realtà potrebbe non essere così. Molto spesso ci sono porzioni di corpo non consumate. Parti come il busto e il bacino necessitano di più tempo per mineralizzarsi. Capita anche che ci siano uno più arti mummificati e quindi non è possibile effettuare la riduzione.

E’ importante smorzare gli animi fin da subito e prendersi il tempo necessario per accertarsi che il lavoro sia possibile da fare per evitare successive delusioni.

 

 

Lo stupore della morte

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Con un grimaldello faccio leva tra le vecchie tavole serrate, alla maniera di un ladro, tanto solenne è il luogo che vado a violare.

chiodi lanciano un sinistro scricchiolio finché non cedono e lasciano uno spiraglio abbastanza largo da infilare le dita e fare forza con le mani.

Il coperchio si muove, si libera, si alza.

Non so cosa troverò, ogni volta è differente, perché i defunti non sono mai uguali; mantengono anche nella morte le loro peculiarità.

Ma c’è un fattore che contraddistingue ognuno di loro, indipendentemente da come sono vestiti, dal genere o dallo stato di conservazione: nella stragrande maggioranza dei casi la carne della testa e del collo è consumata, lasciando a vista il teschio e i primi dischi della spina dorsale.

E in tutti questi casi la mandibola è completamente abbassata, come quando si apre la bocca.

Come quando si prova un forte stupore, lo stupore della morte.