San Valentino.

Red rose isolated  on the white background

Oggi è una bella giornata per essere febbraio.
Il quattordici febbraio.

La porta del cimitero è un cancello mezzo arrugginito che si può aprire semplicemente abbassando la maniglia, come quello di casa. Spalanco l’unica anta e la fermo con una pietra.
Questo piccolo camposanto è sempre nel mio cuore.
C’è una tomba molto particolare, ne ho parlato tempo fa, sul blog, e prima di aggiungere qualcosa di nuovo, ripropongo qui sotto.
Tra i marmi colorati, le scritte metalliche dei nomi, i fiori e le immagini sorridenti, risalta una croce di legno sbiadita, infilata in un cumulo di terra spoglia.
Non è soltanto per la sua semplicità che si fa notare, che talvolta è una necessità o una scelta.
È per il suo abbandono.
Ogni volta che capito lì, su quella tomba c’è solo un fiore.
Sempre un fiore.
Alcune signore, assidue frequentatrici, pensano a togliere le erbacce e mi hanno raccontato quel poco che sanno.
Il nome inciso sulla targhetta di alluminio dorato, fissata alla croce, non lo ricorda nessuno. Si dice fosse una donna sola al mondo che era nata in quel paese ma aveva trascorso la vita lontano. Quando fu sepolta l’accompagnava un uomo, un avvocato: il suo tutore.
Non un parente.
Sulla tomba rimase per alcune settimane un mazzo di fiori; le stesse signore lo gettarono perché era ormai rinsecchito.
Qualche giorno dopo sul cumulo di terra spiccava il bianco e verde di una calla. Semplice, recisa e posata lì. Sembra che ogni settimana quella calla venga sostituita da una fresca.
Nessuna delle signore, nessuno di noi ha mai visto anima viva fermarsi a quella tomba. Ma quel fiore viene rinnovato puntualmente da allora, come una promessa.
Nella mia testa prende forma una storia che ha il sapore di altre storie che ho sentito o letto.
Mi immagino una vita di stenti, forse di violenza, forse di costrizione in uno di quei manicomi in cui si finiva anche solo per soffrire di convulsioni. Vesto quella donna col volto di Alda Merini.
La immagino indistruttibile davanti alle avversità, ancorata alla realtà grazie ai sogni.
Immagino una foto in bianco e nero, un primo piano o una figura distesa, appena svestita, irriverente per i suoi tempi. Immagino una sigaretta accesa, fumata solo a metà.
Immagino un amore vissuto al limite, fuori dal tempo, osteggiato da una società meschina. Immagino appuntamenti tra le foglie cadute in un bosco, baci irresistibili, sospiri e paura.
Immagino momenti di solitudine, colmabili solo con ricordi e speranze, immagino abbandoni e prevaricazioni, sottomissioni e indifferenza.
E poi immagino un addio, perché una storia così può solo finire con un addio.
E immagino qualcuno, che ha amato come non si può immaginare, di un amore proibito e folle, che deve rimanere segreto e sconosciuto per sempre; lo immagino cogliere quel fiore che sicuramente lei amava, che di certo questo amore coltiva con le sue mani e lo immagino venire di buio, oppure la mattina presto, quando è certo che non ci sarà nessuno a vederlo.
È una storia a lieto fine, perché ogni volta che il fiore viene cambiato viene rinnovata una promessa, un ricordo e quella tomba diventa per me un monumento alla vita, alla libertà, all’amore.
Nonostante tutto.
Io, lo confesso, stamani sono venuto qua allungando il giro dei cestini, perché volevo vedere quella tomba, perché mi sento complice di questo amore misterioso, quasi il suo custode.
Dentro è deserto ma non entro neppure.
Apro i tre bidoni che stanno all’ingresso, tolgo i sacchi pieni e metto quelli nuovi senza guardare quello che sto facendo, ma fissando altrove, fissando quel cumulo di terra che rabberciamo da anni, ogni volta che piove forte, e mentre lo guardo non riesco a smettere di sorridere.
Sul cumulo c’è una rosa rossa.

Confusione

Escher

L’altro giorno stavo tagliando l’erba in un cimitero, avevo il decespugliatore acceso.

Mi sono voltato e ho notato un’anziana signora che si sbracciava per attirare la mia attenzione.

Dopo venti minuti che usi il frullino – come chiamiamo dalle nostre parti questo aggeggio col filo che ruota – non puoi sentire una voce che ti chiama, puoi solo immaginarti che qualcuno nel frattempo è arrivato per chiedere qualcosa.

Spengo l’arnese e mi avvicino. Sembro un maniscalco: guanti, un lungo grembiule marrone, cuffie, caschetto e visiera protettivi.

– Buongiorno signora, mi dica.

La signora muove l’indice della mano mentre mi chiede se conosco dov’è la tomba di…

Non finisce il discorso.

Si tocca le labbra preoccupata, poi continua a muovere l’indice:

– Volevo sapere… – si prende piccole pause tra le parole – Sa, la tomba per terra…

La fisso. L’espressione degli occhi è così diversa dal resto del viso che sembra le abbiano appiccicato quelli di un’altra. Conosco quello sguardo mesto e distante.

Adesso tentenna sconsolata la testa, si agita:

– Come posso farle capire…

– Stia tranquilla signora. Ha un familiare qui sepolto?

– Ecco, bravo: mio marito… Per terra.

– Ricorda qual è la tomba?

Resta silenziosa e si guarda attorno. Allora continuo:

– Come si chiamava?

Tra le pause mi dice un nome e un cognome.

– Venga, mi segua che il cimitero è piccolo – Comincio a togliermi la bardatura che indosso –  leggiamo insieme i nomi sulle lapidi.

Mentre cammino lei mi prende a braccetto.

Sembra una bambina.

Le leggo i nomi ad alta voce mentre indico le foto, ad un certo punto mi strattona.

– Eccolo, è quello lì – Mi guarda riconoscente – Grazie, grazie! Adesso gli dico una preghiera.

Si mette compita a fissare la lapide.

Mentre aspetto che finisca metto a posto alcuni vasi spostati dal vento nei giorni scorsi, do una pulita per terra e sistemo i contenitori per annaffiare.

Adesso si guarda di nuovo attorno smarrita. Mi avvicino e le chiedo se è qui da sola, se sa come tornare a casa.

Lei sorride e fa di no col capo. Tira fuori un cellulare dalla borsetta.

– Siccome ogni tanto mi perdo, allora mio figlio mi ha dato un telefono, ma non lo so usare.

– Se vuole lo chiamo io.

Nella rubrica ci sono due soli numeri registrati: uno è registrato come “Il mio numero”, l’altro dev’essere il figlio.

Dice che arriva subito, si scusa un’infinità di volte e si dispera che sia successo di nuovo.

Quando arriva, lei lo saluta in maniera infantile con entrambe le mani.

– Mi scusi ancora – dice lui –  spero che non le abbia dato disturbo.

Non ho fatto niente di diverso da quello per cui mi pagano.

L’ultima cosa che sento mentre se ne vanno la dice la signora: – Sai, ho fatto visita al babbo.

Lui mi guarda complice. Anch’io lo avevo capito ma la conferma mi fa tenerezza e rabbia: il nome che abbiamo cercato non era su nessuna delle lapidi nel cimitero.

Quella non era la tomba del marito.

Lei è stata felice. Mi sento come uno che ha appena salvato il mondo… ma figuriamoci, per così poco!

O forse… forse il mondo l’ho salvato davvero.

Forse il mondo non ha bisogno di essere salvato tutto insieme ma un pezzetto alla volta e oggi ho trovato il mio, di pezzetto.

Il giardino segreto

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Ci sono posti segreti, nascosti alle intenzioni anziché agli occhi.

Ce n’è uno in ogni comune.

Lo puoi trovare accanto al cimitero, coperto di ulivi, di prati all’inglese, o di viti, che vecchi contadini si ostinano a coltivare anche se quella terra non gli appartiene più.

Può essere anche altrove, vicino a un ruscello, coperto da macchie di bosco selvaggio e funghi, oppure rivelarsi arido e roccioso se la terra di quel posto è poca e avara.

Vedrai caprioli saltarci nella stagione degli amori, oppure piccole lepri allontanarsi dall’odore di una volpe o dal fucile di un bracconiere.

Possono variare in grandezza e dimensione e puoi passeggiarci sopra con lo spirito leggero e spensierato, o preso dal tumulto di una passione.

Non troverai nessuna mappa a indicarli e rari sono i carteggi che ne parlano.

Non metterti alla loro ricerca, sarebbe ardua.

Oggi ne ho visto uno e l’ho fissato per interminabili istanti, preso dall’inquietudine del mistero della vita. Dall’ossessione che in ogni luogo c’è questo mostro che dorme.

E il risveglio è delirio.

Perché i paesi che scoprono questi luoghi sono colti da sventura.

Mi piace chiamarli giardini segreti.

I comuni devono catalogarli con altro nome: spazi adibiti a sepoltura per calamità naturali.

Cinquanta

uomo su cumulo

Uno.

Mario faceva l’artigiano.

Due.

Aveva tre figli maschi ma nessuno era entrato nell’azienda di famiglia.

Tre.

Non glielo avrebbe mai detto ma era felice perché ognuno aveva trovato la sua strada.

Quattro.

Indipendentemente da lui.

Cinque.

Quando dovette chiudere la sua impresa, ringraziò il cielo di non aver lasciato i suoi ragazzi senza lavoro.

Dieci.

Sua moglie lo aveva sempre amato, dal follemente di quando erano fidanzati, al sei stato l’unico uomo della mia vita, sul letto di morte.

Quindici.

Quando era piccolo suo padre lo aveva picchiato una volta.

Ventisei.

Il suo orto era tenuto meglio di quello del vicino, tiè.

Trentadue.

Una volta aveva desiderato un’amica di famiglia e si era sentito sporco.

Quarantuno.

Intorno ai sessanta aveva perso la passione per la politica.

Cinquanta.

Adesso il coperchio non si vede più. Gettiamo la pala lontana quasi con rabbia, senza curarci che forse è un gesto brutto da vedere.

E’ il nostro sfogo. Ora ci penserà la ruspa.

Mario non esiste.

Noi necrofori siamo come le copertine in fondo al libro. Chiudiamo una storia dopo che qualcun altro ha già scritto la fine.

 

Il cimitero ebraico

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Tempo fa ho lavorato in un cimitero ebraico.
Non ci si può entrare a cuor leggero.

Le tombe lì dentro parlano.

L’atmosfera che si respira è austera e solenne, tutto è un simbolo, un richiamo alla storia, alla loro.
Forse è la consapevolezza che fa la differenza.
Ciò che risalta di più sono le tombe degli anziani, quelli che l’Olocausto l’hanno vissuto sulla propria pelle.
La maggior parte.

Non è aperto al pubblico, si deve suonare per entrare. Perché in passato quel luogo ha subito violazioni di ogni genere da parte dei vandali.

Ci si muove per i viali in punta di piedi, come per non disturbare il sonno eterno e quando incrociamo un familiare ci salutiamo con un gesto.

Le tombe sono perenni, ognuna ha la sua struttura ma i materiali usati sono gli stessi e così tutto assume un aspetto uniforme, come fosse un enorme monumento in continua mutazione.

Non c’è una lapide o una scultura che accenni a un bisogno di rivalsa oppure al rancore ma tutto è impostato a tramandare un messaggio di speranza, di pace, di memoria.

Durante la sepoltura i parenti si voltano verso Israele e intonano un canto o una preghiera; anche i defunti sono sepolti guardando in quella direzione.

Ma che tu sia un visitatore, un familiare o un operaio, c’è una tradizione che è importante da rispettare, a ogni costo.
Una sola.

Se osservi le tombe puoi notare che su ognuna ci sono dei sassolini.
Ce ne sono di colorati, di pietra oppure di vetro ma tutti hanno lo stesso significato. Bellissimo.

Ognuno di essi è un viaggio.

Ogni volta che un parente o un amico lontano passano per visitare una tomba, lasciano uno di quei sassi: è una testimonianza, un pellegrinaggio per tenere viva la memoria.

Ci sono tombe piene di piccole pietre e le hanno posate mani provenienti da tutto il mondo.

Non si possono rimuovere. Mai.
Perché servono per dire a chi arriverà dopo che è passato qualcuno: non importa chi, importa che.

Lenzuola e vecchi merletti.

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Stiamo liberando alcuni sepolcreti che in seguito verranno demoliti.

Arriva una vecchina, piccola e grinzosa, con un sorriso così delicato e sincero che mette di buon umore solo guardarla.

Si avvicina e incrocia le braccia sul grembo. Le indichiamo la prossima tomba da liberare – E’ una familiare?

– Era mio marito – dice facendo seguire un istante di silenzio pieno di ricordi che le accentuano il sorriso – Siamo stati insieme per venticinque anni. Mi ha lasciato qualche giorno prima di poter festeggiare le nozze d’argento.

La guardiamo in silenzio perché nei nostri silenzi loro sentono partecipazione; hanno bisogno di venire ascoltati, non compatiti.

Continuiamo a fare l’operazione di apertura del feretro e al momento di togliere il coperchio di zinco, l’ultima barriera che separa il mondo dei vivi da quello dei morti, la signora torna da noi.

– Aspettate per favore – Apre la borsa che tiene a tracolla e ne estrae un piccolo fagotto bianco.

– Non posso permettermi un ossario murato – Dice mantenendo sorriso e dignità – Se fosse consumato lo dovrete mettere nell’ossario comune, però… – Ci allunga il piccolo fagotto da cui sbuca un merletto – vorrei che prima di infilarlo in quel posto tetro, metteste le ossa qui dentro, così rimarrà tutto insieme.

E’ una federa.

Ci capitano spesso richieste di questo tipo, per impedire fino all’ultimo di disperdere un nostro caro tra mille altri.

La salma è pronta per essere ridotta. Disponiamo le ossa nella federa come se componessimo un piccolo mosaico. Lo posiamo nell’ossario comune.

Il sorriso della signora si accentua ancora e si stringe nelle spalle, come se abbracciasse un ricordo e bisbiglia: – Tesoro mio, ne ha viste quella federa di cose… – Sulle piccole guance due rossetti la colorano di una tenerezza infinita, che vorrei togliermi i guanti e riempire quell’abbraccio col mio.

 

 

 

Un fiore soltanto.

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In un piccolo cimitero c’è una tomba.

Tra i marmi colorati, le scritte metalliche dei nomi, i fiori e le immagini sorridenti, risalta una croce di legno sbiadita, infilata in un cumulo di terra spoglia.

Non è soltanto per la sua semplicità che si fa notare, che talvolta è una necessità o una scelta.

E’ per il suo abbandono.

Ogni volta che capito lì, su quella tomba c’è solo un fiore.

Sempre un fiore.

Alcune signore, assidue frequentatrici, pensano a togliere le erbacce e mi hanno raccontato quello che sanno.

Il nome inciso sulla targhetta di alluminio dorato, fissata alla croce, non lo ricorda nessuno. Si dice fosse una donna sola al mondo che era nata in quel paese ma aveva trascorso la vita lontano. Quando fu sepolta l’accompagnava un uomo, un avvocato: il suo tutore. Non un parente.

Sulla tomba rimase per alcune settimane un mazzo di fiori; le stesse signore lo gettarono perché era ormai rinsecchito.

Qualche giorno dopo sul cumulo di terra spiccava il bianco e verde di una calla. Semplice, recisa e posata lì. Sembra che ogni settimana quella calla venga sostituita da una fresca.

Nessuna delle signore, nessuno di noi ha mai visto anima viva fermarsi a quella tomba. Ma quel fiore viene rinnovato puntualmente da allora.

Nella mia testa prende forma una storia che ha il sapore di altre storie che ho sentito o letto.

Mi immagino una vita di stenti, forse di violenza, forse di costrizione in uno di quei manicomi in cui si finiva anche solo per soffrire di convulsioni. Vesto quella donna col volto di Alda Merini.

La immagino indistruttibile davanti alle avversità, ancorata alla realtà grazie ai sogni.

Immagino una foto in bianco e nero, un primo piano o una figura distesa, appena svestita, irriverente per i suoi tempi. Immagino una sigaretta accesa, fumata solo a metà.

Immagino un amore vissuto al limite, fuori dal tempo, osteggiato da una società meschina. Immagino appuntamenti tra le foglie cadute in un bosco, baci irresistibili, sospiri e paura.

Immagino momenti di solitudine, colmabili solo con ricordi e speranze, immagino abbandoni e prevaricazioni, sottomissioni e indifferenza.

E poi immagino un addio, perché una storia così può solo finire con un addio.

E immagino qualcuno, che ha amato come non si può immaginare, di un amore proibito e folle, che deve rimanere segreto e sconosciuto per sempre; lo immagino cogliere quel fiore che sicuramente lei amava, che di certo questo amore coltiva con le sue mani e lo immagino venire di buio, oppure la mattina presto, quando è certo che non ci sarà nessuno a vederlo.

È una storia a lieto fine, perché ogni volta che il fiore viene cambiato viene rinnovata una promessa, un ricordo e quella tomba diventa per me un monumento alla vita, alla libertà.

Nonostante tutto.

Il rito dell’esumazione

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Oggi parlerò di come faccio un’esumazione.

Di come la faccio io intendo.

Sicuramente ci saranno metodi migliori; a me hanno insegnato questo. Ne scriverò mantenendo le premesse con cui ho sempre tenuto questo blog: rispettare chi non c’è più.

E’ esattamente il presupposto necessario per effettuare questo tipo di operazioni. In fin dei conti abbiamo davanti delle persone che stanno a guardare noi, che mettiamo i resti di un loro caro estinto, dentro una scatola di ferro.

Se capitasse a me vorrei massimo rispetto.

Inizierò a raccontare da quando la cassa è tornata alla luce, dopo il lavoro dell’escavatore e della pala come ho spiegato in questo post.

Appena il coperchio è libero dalla terra cerco di sollevarlo a mano, solitamente si apre senza problemi. In caso contrario faccio leva con qualche attrezzo.

Comincio a ripulire la superficie superiore della cassa da eventuali infiltrazioni di terra.

Mi aiuto scalzando le estremità dell’imbottitura che avvolge la salma, così da far scorrere la terra all’esterno dell’involucro di stoffa. Se questo non basta viene in aiuto il velo in raso, che di solito ricopre il corpo nella sua lunghezza. In assenza di questi tessuti, devo liberare il corpo con i guanti o con una mestola, tipo come fanno gli archeologi quando trovano un reperto.

Dopo aver liberato l’area di lavoro, avvicino la cassetta di zinco che accoglierà i resti.

Solo la testa e le mani sono esposte, il resto è dentro le logori vesti che dopo tanti anni hanno assunto l’aspetto di un sudario.

Per prima cosa cerco le ossa delle mani. Sono le parti più piccole. Mentre i piedi sono raccolti nelle scarpe o nelle calze, gli arti superiori possono spargersi, rendendo più lungo il loro recupero specie se nella cassa c’è del fango. Tolgo anche l’ulna e il radio dalle maniche.

Ripartendo dall’alto ripongo il cranio, che è la parte più ingombrante; insieme ad altre ossa più lunghe vanno posizionate in modo che lo spazio nella cassetta sia sufficiente ad accogliere tutto.

Passo alle vertebre cervicali che sistemo in basso, dietro al cranio; quindi le clavicole, l’omero, le costole, lo sterno (che talvolta è quasi totalmente consumato) e concludo togliendo le vertebre rimanenti.

Proseguo con le ossa del bacino, che cerco di mettere ai lati lunghi della cassetta per lasciare spazio alle successive sei ossa: femore, tibia e perone. E’ per quelle che bisogna gestire lo spazio; si rischia di non riuscire a chiudere il coperchio e dover risistemare l’interno. Una cosa che di certo i familiari non gradiscono.

Infine raccolgo le rotule.

Il recupero delle ossa dei piedi è quasi sempre agevole. Come già detto sono all’interno di calzature e quindi basta svolgere il tessuto all’interno dell’ossarietto di zinco.

La velocità di queste operazioni dipende dal tipo di abito indossato dalla salma. Abbiamo a che fare con pantaloni o calze di nylon (talvolta indistruttibili!), camicie e giacche, mantelli o scialli, intimo di ogni genere che mantiene la sua resistenza anche dopo tanti anni.

Una curiosità.

Se al momento di togliere il coperchio i familiari vedono il cranio consumato, tirano un respiro di sollievo e cominciano a esprimere consensi sulla buona sorte occorsa al loro defunto: danno per scontato che il processo di decomposizione sia completo.

In realtà potrebbe non essere così. Molto spesso ci sono porzioni di corpo non consumate. Parti come il busto e il bacino necessitano di più tempo per mineralizzarsi. Capita anche che ci siano uno più arti mummificati e quindi non è possibile effettuare la riduzione.

E’ importante smorzare gli animi fin da subito e prendersi il tempo necessario per accertarsi che il lavoro sia possibile da fare per evitare successive delusioni.

 

 

Lo stupore della morte

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Con un grimaldello faccio leva tra le vecchie tavole serrate, alla maniera di un ladro, tanto solenne è il luogo che vado a violare.

chiodi lanciano un sinistro scricchiolio finché non cedono e lasciano uno spiraglio abbastanza largo da infilare le dita e fare forza con le mani.

Il coperchio si muove, si libera, si alza.

Non so cosa troverò, ogni volta è differente, perché i defunti non sono mai uguali; mantengono anche nella morte le loro peculiarità.

Ma c’è un fattore che contraddistingue ognuno di loro, indipendentemente da come sono vestiti, dal genere o dallo stato di conservazione: nella stragrande maggioranza dei casi la carne della testa e del collo è consumata, lasciando a vista il teschio e i primi dischi della spina dorsale.

E in tutti questi casi la mandibola è completamente abbassata, come quando si apre la bocca.

Come quando si prova un forte stupore, lo stupore della morte.

La geometria della memoria.

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Ho lavorato in molti cimiteri, ne ho visti davvero di ogni genere.

Da quelli metropolitani, organizzati come città, a quelli di montagna, arroccati come piccole fortezze a difesa di paesi abbandonati. Capaci soltanto di accogliere il ritorno di nostalgici abitanti di un’epoca passata, che hanno fatto in tempo, prima di morire, a desiderare di essere riportati nel luogo nativo.

Ci sono i cimiteri monumentali, intoccabili, memoria storica delle passate generazioni e quelli, in numero maggiore, in cui viene effettuata la rotazione, dove periodicamente gli spazi vengono liberati per nuove accoglienze.

Negli ultimi anni i cimiteri stanno cambiando aspetto.

Complice la crisi ma anche il progressivo disinteresse verso il culto dei defunti, vengono generalmente posate tombe più semplici, meno elaborate. Un fattore che, per inciso, non è positivo o negativo ma solo un segno del cambiamento.

Di recente sono tornato in un camposanto dove non entravo da anni. Lo ricordavo ricco di statue, marmi disposti in maniera artistica, con la chiara volontà dei committenti di lasciare opere, a futura memoria del defunto, degne delle sculture dei grandi del passato.

Adesso due settori sono stati liberati e progressivamente occupati da nuovi ingressi. Le nuove tombe sono molto semplici, senza eccessi.

La magnificenza, la solennità delle statue grigie di angeli compassati, madonne disperate e panneggi marmorei dai contorni zuccherini, pietre abbracciate da edera vivace e ferri battuti da mani robuste, sono ormai andate perdute.

C’era qualcosa… c’è qualcosa che sento dentro, guardando questi luoghi e che cambia a seconda del posto in cui mi trovo; una sensazione che non sono mai riuscito a razionalizzare. O meglio, non riesco a capire cosa sia a darmi suggestioni ogni volta diverse.

Poi, mentre cercavo un modo per spiegarlo in questo post, d’un tratto ho capito: è la simmetria.

Nei piccoli cimiteri antichi si trovano tombe risalenti ai primi del novecento, a cui se ne sono avvicinate altre a macchia d’olio e sono rimaste lì, in attesa di un pensiero, di una visita. Questi luoghi non sono stati cambiati nel tempo ma dal tempo.

Tra i sepolcri si snodano sentieri irregolari, solcati dalle nervature di radici che si snodano da piante secolari, sfiorando le lapidi, alzandole, sfidando il peso delle strutture fino a creare una ragnatela scoscesa tra spazi sempre differenti, ormai occupati dalla vegetazione che cresce spontanea. Quelle costruzioni si alternano senza linea di continuità, creando perimetri irregolari e forti contrasti di colori.

E’ qui dentro che avverto una sorta di inquietudine, una punta d’angoscia. Come se tutta l’anarchia di quelle architetture mi volesse suggerire la sofferenza che si cela nel ricordo dietro ogni nome, sotto ogni lapide.

Nei cimiteri moderni questo non mi accade, o succede in misura impercettibile. Perché lì ogni campo è delimitato da un perimetro preciso; le tombe sono perfettamente distanziate tra loro, allineate e squadrate, tutte della stessa misura e caratterizzate da un’avara scala di colori.

La semplicità ha per me il grande vantaggio di alleviare il tormento, rendere meno tremendo il pensiero di essere al cospetto della fine.