Sono due minuti che ho aperto il cancello del cimitero vecchio.
Do l’ultimo morso a un dolcetto che mia moglie aveva nascosto insieme ai panni. Mi passo una mano sulla bocca, se ci fosse qualche briciolo e tengo gli occhi chiusi un istante di più, come per assaporare questo giorno, che penso sarà buono; domani sono di festa.
Poi avverto un suono. È continuo, e piccolo.
L’ultimo passo che faccio prima di essere fermo, mi fa sbucare nella parte nuova, che ha il cancello che apre da solo.
C’è un signore, anziano, appoggiato al marmo di un loculo in seconda fila.
Non mi ha visto e non ha sentito arrivare questi scarponi silenziosi.
Allora torno celato, dietro al muro.
Il suono continua. È lui.
Intona una melodia che non riconosco.
Non me la sento di interromperlo passando di là; allora aspetto di non essere di troppo e mi trovo a rubare questo momento.
Spunto fuori appena, che lo possa vedere, appena, che lui non mi veda.
È posato alla lastra lucida come fosse perso in un abbraccio; le labbra appoggiate come in un bacio.
E suona.
Perché non canta, né fischia; emette questo suono melodioso, quasi nasale.
Quando il suono finisce lui si sposta, carezza la foto e se ne va.
Allora esco, vado verso la stanza degli attrezzi e non posso fare a meno, passando là davanti, di sbirciare quel marmo.
Oggi sarebbe stato il compleanno della donna che lì dentro riposa.